Frida, è una madre coraggio, che sta facendo di tutto per tutelare la sua bambina, che ha messo al mondo otto anni fa, contro il volere del padre biologico, suo ex compagno, che saputo della gravidanza ha prima cercato di convincerla a rinunciare e poi si è rifatto vivo reclamandone la paternità. Frida ha portato avanti la gravidanza e da sola si è fatta carico della crescita della bambina. Dopo molto tempo l’uomo ha deciso di voler riconoscere la paternità e ha iniziato una battaglia legale che si protrae da lungo tempo in Tribunale. In tutti questi anni Frida ha continuato a crescere ed educare la sua bambina.
La storia di Frida
Oggi c’è una bambina che un padre tardivamente decide di riconoscere e che lei invece non riconosce come padre; non solo, non vuole incontrare il padre col quale non si è, nel frattempo, creato un rapporto significativo.
Ora dopo l’ultima decisione del Tribunale di Venezia, Frida ha deciso di uscire allo scoperto appellandosi a chiunque possa darle sostegno, ricordando che il suo è uno dei 36 casi già esaminati dalla Commissione Parlamentare sul Femminicidio e riconosciuto dalla stessa come esemplare di rivittimizzazione da parte delle Istituzioni.
Frida cosa ha provato dopo il provvedimento immediatamente esecutivo, che stabilisce che sua figlia sia prelevata ogni giorno dalla casa nel Veneziano, dove ha sempre vissuto, per trascorrere la giornata in affido extra familiare?
“È un provvedimento che non faccio fatica a definire iniquo, lesivo della dignità di mia figlia.
Ho affrontato da sola la gravidanza, come anche il parto, e da sola ho cresciuto la mia bambina, eravamo una famiglia monogenitoriale a tutti gli effetti che andava tutelata, ma il Tribunale, forte dell’articolo 250 (riconoscimento tardivo) e della legge 54/2006, ha iniziato fin dalle prime battute a ritenere la bigenitorialità superiore a qualunque altro diritto, anche di rango costituzionale, per imporre un riconoscimento tardivo da parte di un padre, attraverso un rapporto forzato tra questi e la bambina. Una situazione difficile sul piano psicologico, dove un minore andrebbe tutelato, poiché per la bambina quello che dovrebbe essere il papà, è sempre stato vissuto solo come un estraneo con cui doversi a forza relazionare”.
Frida, perché ha respinto la richiesta di paternità da parte del suo ex compagno?
“Per una comprensibile sfiducia nella capacità genitoriale di un uomo che aveva reagito con angoscia alla notizia della propria paternità, con disagio, paura e minacce. Ma la cosa più assurda è che invece sono stata io a essere stata sottoposta a ben due Ctu che hanno rilevato, quando la bambina aveva solo 18 mesi, un “conflitto di lealtà” ovvero lo spettro della Pas (sindrome della madre alienante), nei confronti di un padre che non era mai stato presente. All’epoca quando la bambina era più piccola, il giudice, con l’avallo del perito nominato, stabilì che la bambina dovesse vedere quest’uomo in incontri liberi due volte a settimana. Senza prendere in considerazione il disagio manifestato dalla bambina già nei precedenti incontri alla mia presenza, avvalorato anche dalle insegnanti che vedevano la paura della stessa di andare via col padre nelle giornate in cui andava a prenderla a scuola”.
Frida, quali sono stati i momenti più difficili di questi anni?
“La cosa più assurda è quella di essere accusata dai periti nominati dal tribunale una madre ostativa al rapporto della bambina con colui che tardivamente ne rivendicava la paternità. Una definizione che non trova alcuna validità scientificamente e giuridicamente riconosciuta, il genitore “alienante” sarebbe quello che induce il rifiuto di un figlio verso il padre. Mia figlia era piccolissima, non aveva mai vissuto in una triade familiare perché potesse realizzarsi il famigerato “conflitto di lealtà” che le avevano appioppato i periti!
Qui si tratta di un uomo che voleva costringermi all’aborto. E che poi, folgorato sulla via di Damasco, è tornato per chiedere, anzi per pretendere, il riconoscimento, l’imposizione di un nome di battesimo diverso e ovviamente del cognome. Un cognome, aggiunto in seguito per decreto. Si è avviata una battaglia legale che si trascina da tempo con in mezzo una bambina. Che ora ha un’età tale per cui potrebbe esprimere il suo parere davanti ai giudici. Ma che si è preferito non ascoltare, perché considerata condizionata dalla madre!”.
Lei è stata anche multata dal Tribunale: per quale motivo?
“Nel precedente primo grado, che ha dato inizio al nostro calvario, sono stata condannata a un importo davvero inusuale. 47mila euro -con conseguente e immediato pignoramento del mio stipendio di insegnante precaria. Per aver “oltrepassato il limite del diritto di difesa” in quanto mi ero rivolta alla Commissione femminicidio che proprio in quel periodo aveva chiesto gli atti al tribunale e che mi ha ritenuto vittima. Anche l’odierno decreto del giudice tutelare, mi condanna a una cifra che si aggira sui 30.000 euro. E anche stavolta non solo si contesta il mio diritto di proteggere mia figlia. Ma non si fa nessuna valutazione sulla mia possibilità di affrontare cifre di questa portata.
Mi pare si voglia colpire la mia capacità economica per impedire di continuare a difendermi. L’obiettivo mi sembra quello di realizzare sulla carta una bigenitorialità a tutti i costi, frutto di un egoismo di adulti. Non riesco a capire come si possa istituzionalizzare la vita di una bambina. Cresciuta con amore da sua madre e assegnata ai servizi sociali e a una curatrice pur di imporle la figura paterna. Era davvero questo il supremo interesse di mia figlia?”.
Frida, nei procedimenti che la riguardano, ci sono accuse di violenza. Sono state prese in considerazione nei vari passaggi in Tribunale?
“Purtroppo, come avviene in moltissimi casi, la violenza è stata derubricata a conflitto. Anche grazie alle perizie che, sempre secondo me, hanno finito per basarsi soprattutto sui “criteri dell’accesso”. In base ai criteri dell’accesso, qualunque madre che tenti di proteggere il proprio figlio è per definizione ostacolante, non collaborativa, e quindi per estensione alienante. Mi sono rivolta per la prima volta a un Centro Antiviolenza nel 2016. Ero vittima di appostamenti che tutti i miei vicini di casa hanno testimoniato, raccontandomi anche di essere stati contattati telefonicamente per avere informazioni.
Ho denunciato ogni cosa in questura. Parallelamente, prima ancora del decreto di riconoscimento, quando ero a tutti gli effetti l’unico genitore di mia figlia, lui ha iniziato uno stalking giudiziario. Fatto di decine di denunce, anche due al mese. Per sottrazione di minore e mancata ottemperanza ai provvedimenti del giudice che mi hanno portata a processo. Paradossalmente quella stessa Procura che non ha indagato quanto da me denunciato, ha iniziato fin dal 2020 a indagare su di me”.
Siamo arrivati all’ultimo atto di una storia che si trascina da 7 anni…
“Sì, siamo all’ultimo atto, quello in cui è stato disposto l’affido ai servizi sociali con collocazione extrafamiliare diurna di mia figlia. I servizi sociali hanno il compito di curare l’attuazione della statuizione, anche con l’aiuto delle forze dell’ordine qualora mi opponessi. Il decreto ha raso al suolo i diritti di mia figlia e cancellato con disonore la figura materna. Mi sento vittima di una feroce ingiustizia, direi di un clamoroso errore giudiziario se non ci fossero tante altre madri nella mia stessa condizione. Ma finalmente anche qui le madri stanno cominciando a parlare nonostante i tanti tentativi per zittirle”.
Si può nel suo caso parlare di vittimizzazione secondaria?
“Purtroppo sì, e lo dice una Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza di genere. La vittimizzazione sta mietendo sempre più vittime, anche in ambiti differenti. Nel mio caso si tratta di tutelare una madre e una figlia che rischiano una separazione violenta. Ma soprattutto una bambina intelligente, equilibrata e piena di interessi che da un giorno all’altro potrebbe essere strappata alla sua vita. Al suo ambiente, ai suoi affetti, alle sue amicizie, con conseguenze drammatiche per il suo benessere psicofisico. E tutto questo senza che le sia stata data la possibilità di essere sentita dal giudice. Ci sono molte falle nel sistema giudiziario”.
Molte le forze politiche che si sono date da fare e continuano a sostenere Frida attraverso l’invito a rivedere che cosa non abbia funzionato, alla luce della riforma Cartabia. Per capire come mai il tribunale non abbia applicato la Convenzione di Istanbul.
Frida e la rivitimizzazione
Il caso coinvolge anche il Parlamento. L’indagine sulla “vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale” prende in esame un campione di 569 fascicoli del Tribunale ordinario, su 2.089 procedimenti di separazione giudiziale con figli minori relativi al trimestre marzo-maggio 2017 (7621 nell’intero 2017) e 620 fascicoli del Tribunale dei minorenni, rappresentativi dei 1.452 iscritti al ruolo nel mese di marzo 2017. I risultati mostrano che nel 34% dei casi sono presenti allegazioni di violenza domestica, ovvero denunce, certificati o altri atti e annotazioni (da sottoporre a verifica nel corso dell’iter giudiziario) relativi a violenza fisica, psicologica o economica, presentati soprattutto dalle madri.
A volte la violenza riguarda direttamente i figli. Nel 18,7% dei casi al Tribunale ordinario, nel 28,8% nei procedimenti pendenti davanti ai Tribunali per i minorenni. Nonostante ciò – si legge nella relazione – il totale delle sentenze definitive prevede nel 63,8% dei casi l’affidamento condiviso dei figli minori, non considerando quindi la violenza. I presidenti dei Tribunali, anche in presenza di allegazioni di violenza e di notizie relative all’esistenza di procedimenti penali pendenti o definiti, nel 96% degli episodi non hanno infatti ritenuto di acquisire d’ufficio i relativi atti.
Frida e la relazione della commissione
Inoltre, in più di un terzo dei fascicoli considerati, in presenza di violenza, il tribunale favorisce le trasformazioni dei riti da giudiziale in consensuale, delega gli accertamenti al servizio sociale. E in presenza di consulenze tecniche d’ufficio, queste nel 61,2% dei casi vengono interamente accolte dal tribunale e recepite nei decreti. Anche perché nei quesiti vi è una totale assenza di riferimenti alla violenza.
La relazione della Commissione mostra che nelle perizie, pur non citando direttamente la cosiddetta PAS – alienazione parentale -, ricorre sempre lo stesso lessico. La donna viene definita alienante, simbiotica, manipolatrice, malevola, violenta, inducente conflitto di lealtà, fragile. Senza considerare che in oltre il 60% dei casi l’ascolto del minore non viene disposto. “Numerosi – scrive la Commissione – sono gli affidi ai servizi sociali. Misura che appare particolarmente punitiva per i genitori e fortemente rivittimizzante per le madri, che hanno subito maltrattamenti”.
Valeria Valente
Nei 36 casi emblematici portati all’attenzione della Commissione – storie in cui le donne hanno denunciato di essere state vittime di violenza o hanno denunciato i partner per abusi sui minori – a 25 madri è stata limitata la responsabilità genitoriale. E i figli sono stati allontanati, applicando la PAS o teorie analoghe. I restanti casi sembrano avviati ad avere la medesima conclusione.
“La violenza denunciata dalle madri esiste in oltre il 30% dei fascicoli esaminati dalla Commissione, ma non viene letta”. Spiega Valeria Valente, membro della Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio. “Il rischio più grande è che non si applichino le tutele previste dalla Convenzione di Istanbul sulla messa in sicurezza di donne e bambini. Affidando il minore all’autore della violenza – nella stragrande maggioranza il padre – e mettendo in discussione la responsabilità genitoriale della madre. Ritenuta colpevole del rifiuto del figlio nei confronti del padre. Così, in nome della bigenitorialità prevista dal nostro impianto normativo (legge 54 del 2006), il bambino viene allontanato dalla madre e resettato per costruire il rapporto con entrambi i genitori. Il tema è che nei procedimenti civili o minorili la violenza viene ignorata o derubricata a conflitto, ritenendola appannaggio esclusivo del procedimento penale”, conclude Valente.