Non è facile parlare di violenza di genere oggi. Non lo è perché siamo tutte e tutti scossi dai recenti fatti di cronaca ma anche perché la quantità di accuse, esternazioni, considerazioni – sia di tipo personale che con valenza di generalizzabilità – è soverchiante. E non è facile perché provare a parlare di violenza di genere, oggi, espone a giudizi personali su chi si espone, a qualunque livello. Eppure dobbiamo farlo, per cercare di costruire una cultura collettiva della discussione che possa permetterci di entrare in una nuova fase sociale, non della contrapposizione ma della ricerca di un miglioramento per tutte e tutti. Dobbiamo farlo perché la violenza, i femminicidi, gli omicidi, le sopraffazioni e gli ostacoli alla libertà personale continuino a ridursi fino ad essere, se non assenti, episodi talmente rari da essere veramente l’eccezione.
“Se non capisci sei parte del problema”
Purtroppo, se si ha quest’obiettivo in mente, non si può rinunciare a fare dei ragionamenti complessi. Sarebbe molto più facile e sereno seguire l’onda social e replicare i concetti che sembrano andare per la maggiore. Meno discussione, meno polemiche. Ma qui sorge evidente il primo problema: il principale veicolo dell’informazione al giorno d’oggi, i social network o social media, non sono uno spazio neutro. A volte ci dimentichiamo che sono aziende private, che fatturano con pubblicità mirata sulla base della presenza e dell’attività delle persone. E come fanno a fare entrare quanto più possibile la gente? agendo sulle emozioni.
I contenuti social che funzionano meglio, che generano “impressions” – attività degli utenti – tendono ad essere brevi, ad identificare un problema chiaro (non importa quanto reale, esclusivo, esaustivo) e a fare leva su emozioni forti come la rabbia o l’indignazione. I famosi algoritmi sono progettati proprio per questo. Attenzione, va detto che fino a pochi anni fa c’erano altri problemi: la concentrazione del potere mediatico in pochissime mani che potevano modellare messaggi collettivi da far passare a milioni di spettatori o lettori fondamentalmente passivi.
A ogni epoca i suoi dilemmi
Ma nella comunicazione odierna, l’emotività e l’ipersemplificazione dei messaggi e la difficoltà di approfondire o di dialogare sono un elemento di difficoltà nel raggiungere risultati sociali efficaci. In questa prospettiva possono essere anche letti una serie di espedienti retorici, ormai diventati patrimonio collettivo, che riducono la possibilità di leggere i fenomeni in modo più complesso: parole come “mansplaining”, risposte ormai apprese e replicate spesso acriticamente come “se non capisci sei parte del problema”, l’etichettamento come “shaming” o come un attacco a genere, etnia, orientamenti e credenze individuali di qualunque critica a un’affermazione o a un pensiero, la pressione a seguire e portare avanti attivamente istanze di gruppi online e di figure preminenti possono spaventare e inibire tante persone.
A questo si aggiunge la disabituazione a leggere testi lunghi e a prendersi il tempo per ragionare in maniera complessa. In questa situazione di difficoltà e, perché no, pericolo, è comunque necessario ed etico provare a dare un contributo legato alle proprie competenze e a mettere nella piazza virtuale una sensibilità individuale, come alternativa a una rinuncia completa della vita sociale.
Nel mio piccolo
In questa prospettiva io sono personalmente molto fortunato: posso discutere di questi argomenti in università. Lo posso fare in un ambiente che, nonostante tutte le sue difficoltà, permette ancora un approfondimento del pensiero e valorizza la libertà di espressione. Inoltre mi accorgo di avere un vantaggio enorme rispetto ai social: ho ore per farlo.
Mediamente una lezione dura tre ore, se il discorso dalla teoria si sposta su fatti concreti e attuali c’è il tempo di pensare e discutere, di coniugare le informazioni e le notizie con le teorie, di formulare molte domande e di avere molte risposte o, quantomeno, ipotesi. Abbastanza il contrario della piazza virtuale, insomma. Anche per questa ragione sento di voler portare qualche considerazione, senza avere la pretesa di concludere una discussione, di avere la piena ragione, di portare una soluzione pronta all’uso. Perciò affronteremo tre elementi oggi popolari cercando di inquadrarli, collocarli e ampliarne il significato.
Esiste il patriarcato e che conseguenze ha?
In questa prospettiva non si può non partire dal patriarcato e porsi due domande: esiste? è la causa dei femminicidi? La risposta alla prima domanda è complessa e probabilmente si potrebbe riassumere in si e no. Si tratta di un costrutto recente, proveniente da alcune scuole di pensiero sociologiche americane, che riunisce una serie di elementi sistemici sociali legati alla dominanza di un pensiero tradizionale e di uno “stile” relazionale maschile nella società, con conseguenze dirette su comportamenti e su “ostacoli sistemici” alla parità di genere.
Ovviamente si tratta di una definizione riassunta e riduttiva, ma in questa sede dovremo accontentarci per ovvi motivi di spazio e tempo. In questa prospettiva, inquadrandolo come un costrutto scientifico utile a definire lo spazio sociale ma necessariamente non tautologico o univoco, possiamo dire che si, esiste. D’altra parte esistono molte letture sociali di stampo diverso, ad esempio quelle che parlano della morte (o distruzione) del concetto e del simbolo paterno. Già solo con questa considerazione stiamo raffinando i concetti e il pensiero: come costrutto il patriarcato può esistere ma si tratta una chiave di lettura.
Causa – effetto
La seconda domanda, forse la più importante, è la relazione causa-effetto tra il patriarcato e gli episodi di cronaca. Una semplice considerazione statistica dovrebbe farci pensare il contrario: i femminicidi, ad oggi, sono poco più di cento (non entro nella distinzione tra delitti all’interno di relazioni e omicidi di donne per possibili altre ragioni perché non è l’obiettivo di oggi e comunque il numero deve andare a 0) su una popolazione di sessanta milioni di persone. Una condizione sociale generale, pervasiva e con influenza forte sui singoli dovrebbe portare ad altri numeri. Quindi l’esistenza di un effetto diretto è improbabile. Sarebbe come dire che gli incidenti aerei avvengono per via della nebbia.
Certo, molti incidenti aerei si sono verificati in condizioni di scarsa visibilità (quindi un ruolo della nebbia c’è, si veda il caso di studio generalmente utilizzato in questo ambito – il disastro aereo di Tenerife del 1977), ma il numero di decolli e atterraggi in condizioni metereologiche non ottimali è enorme. Pertanto possiamo interpretare la presenza di un costrutto sociale così diffuso – secondo alcune interpretazioni – come una concausa oppure, meglio, come un substrato fertile per la violenza, oppure un elemento che consente tante altre forme di violenza e sopraffazione quotidiane, più “socialmente accettabili” come l’umiliazione, la scarsa considerazione, l’offesa legata o slegata al genere, che poi, a volte, portano ad altri comportamenti e atteggiamenti che, a volte, possono portare fino a condizioni estreme.
La questione Turetta
Riguardo all’ultimo fatto di cronaca, anche volendo pensare – senza giustificare – a condizioni di disagio psicologico o psicopatologia del Turetta, si potrebbe dire che senza una cultura che permette anche solo di immaginare alla violenza come soluzione non si sarebbe arrivati al femminicidio. Purtroppo, ancora una volta, si tratta di un pensiero complesso che necessiterebbe da una parte di pensare all’origine della violenza come comportamento adattivo e non necessariamente solo maschile, dall’altra di avere prove di falsificazione.
Quindi, riassumendo e volendo accettare il concetto di patriarcato così come viene proposto, possiamo pensare che esso sia una chiave di lettura riguardante una condizione che favorisce o rende possibili eventi che poi devono essere analizzati caso per caso. In questa prospettiva, dunque, si tratta qualcosa su cui si può e si deve agire confidando di avere comunque buoni risultati, magari non tanto sul numero di delitti ma su un miglioramento sociale generale. E questa considerazione ci porta alla seconda domanda.
Chi è responsabile degli episodi di violenza?
Che ruolo e che responsabilità hanno i singoli e la società negli episodi di violenza di genere? Anche qui purtroppo la risposta non è semplice. Intanto va detto che le istituzioni non hanno avuto e non hanno abbastanza sensibilità per i temi della salute mentale e sociale. Ricordiamo però che le istituzioni sono governate da persone elette, che devono rendere conto agli elettori quantomeno per proseguire nel loro percorso politico, quindi, alla fine, siamo tutti noi.
Il ruolo delle istituzioni può e deve essere educativo, informativo, preventivo e d’intervento sul disagio esistente. Si tratta dunque di scindere la funzione istituzionale rivolta alla maggioranza della popolazione – che deve essere trattata come “sana” e non sistemicamente disfunzionale per non correre il rischio di un effetto di rigetto – incentrata sull’informazione e sul dialogo da una rivolta a persone e situazioni a rischio, che però devono essere identificate e necessitano di risorse economiche e umane.
Il piano socio-culturale
Esiste poi un piano socio-culturale che vede ancora troppe persone senza volontà di approfondire, discutere ed educare in famiglia o nei loro ambiti microsociali gli aspetti di rischio che le relazioni comportano. In questa prospettiva non si parla, ovviamente, solo del rischio di morire ma dei rischi emotivi, sentimentali, relazionali e sociali che sono insiti anche nelle relazioni con i migliori presupposti: la totale assenza di preparazione a un mondo al di fuori dai rassicuranti confini familiari e delle amicizie più strette può rendere le persone, specialmente le più giovani, incapaci di confrontarsi con eventi che in realtà sono parte della vita.
In questa prospettiva di comunicazione e di dialogo non si tratta di accettare acriticamente concetti come il patriarcato o il razzismo sistemico, si tratta di volere e avere la forza morale di approfondire e condividere questi temi. Purtroppo non è facile, e tante persone scelgono di evitare. La responsabilità della società e degli individui, di ciascuno di noi, è di scegliere di discutere, di voler ascoltare e dare pensieri e punti di vista personali, nel rispetto e nell’idea che gli interlocutori abbiano legittimamente la capacità e la facoltà di scegliere le proposte, le interpretazioni e gli orientamenti che preferiscono.
Ognuno può portare il suo mattoncino
La terza domanda è breve e diretta ed è formulata al singolare, che rappresenta ognuno di noi: ma allora che idea posso farmi dei fatti di cronaca, dei femminicidi, della società? La risposta diretta, purtroppo o per fortuna, non esiste. Dobbiamo imparare a gestire un processo di costruzione della conoscenza molto complesso. Un tempo sembravano esserci più certezze per via delle possibilità comunicative dell’epoca (qualunque epoca prima degli ultimi anni): da uno a molti. Poche persone autorevoli dicevano cose a cui si credeva.
Ma il processo di conoscenza, il dibattito anche acceso, è sempre stato presente nella scienza, nella filosofia, nella conoscenza, la differenza è che arrivava ai più già processato. Oggi è esteso, per la prima volta ne siamo tutti parte, possiamo vedere premi Nobel che discutono animatamente via social – un tempo lo avrebbero fatto a un convegno di fronte a un centinaio di colleghi – e, in qualche modo, anche partecipare attivamente.
Per cui è fondamentale sentire più fonti, analizzare le prospettive e le prove, conoscere se stessi per comprendere quanto i nostri atteggiamenti siano legati ai tratti caratteriali, all’educazione, alla storia personale e quanto a un ragionamento approfondito. Le uniche cose su cui non si può e non si deve transigere sono il rispetto e la volontà di porre il nostro pensiero verso il miglioramento della società, il raggiungimento di una condizione in cui ciascuno possa sentirsi in condizione di libertà, legittimazione, protezione e serenità nel vivere come ritiene. Quindi va bene che si esortino le persone a fare rumore, ma anche che le si esortino a prendersi un attimo di tempo e ragionare, che si ripeta che il patriarcato è la causa diretta dei femminicidi ma anche che la vera causa sia la mancanza di figure paterne forti.
Fenomeni complessi
La società e la sua evoluzione sono fenomeni complessi, c’è della verità in tutte le affermazioni precedenti e in tante altre – ovviamente al netto che siano formulate in buona fede e non nascondendo agende politiche o ideologie – e il miglioramento individuale e collettivo sta nel continuare interrogarci ma, soprattutto, nell’agire in scienza e coscienza e nell’essere attivamente impegnati per il bene. Il punto chiave, dunque, è mantenere gli occhi sull’obiettivo, quello di realizzare la società in cui vorremmo vivere, e dare un contributo positivo concreto: non sarà la soluzione definitiva a tutti i problemi, ma può essere il nostro mattoncino nella scala dell’evoluzione sociale.
Di Alessandro De Carlo, Psicologo, psicoterapeuta, docente nelle università di Padova e Giustino Fortunato.