Secondo alcuni studi e proiezioni che si possono agevolmente trovare in Internet, alcuni dei quali anche di grande attendibilità (Deloitte, per esempio), la transizione dei nostri sistemi verso una trasformazione “green” costerà almeno 180 trilioni di Dollari (che, in modo più facilmente comprensibile, sono 180.000 miliardi di Dollari) nei prossimi 50 anni ma la “buona notizia”, si fa per dire, è che l’impatto di tale costo potrebbe creare situazioni peggiori del problema che si propone di risolvere. Facciamo un’analisi di quanto può costare lo sviluppo sostenibile.
Cos’è la carbon footprint
La carbon footprint, letteralmente impronta di carbonio, è il parametro che ci consente di determinare l’impatto ambientale che le attività dell’uomo in generale hanno sul cambiamento climatico e, quindi, sul riscaldamento globale del Pianeta. Si tratta in pratica di un’indicazione della quantità di anidride carbonica, la famigerata (ma a ragione?) CO2 emessa nell’atmosfera a causa delle nostre abitudini di vita, di movimento, di lavoro e di svago, sia direttamente sia indirettamente.
Si tratta, quindi, di un elemento fondamentale per determinare l’impronta che i beni prodotti e consumati e i servizi forniti e utilizzati quotidianamente lasciano sul Pianeta.
Attraverso l’uso di sistemi di controllo che tengano conto dell’impronta ambientale, siamo in grado di stabilire di quanta superficie del globo terrestre, in termini di terra e acqua, la popolazione umana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti, perché è possibile misurare l’impronta ambientale di un individuo, di una città, di una popolazione, ma anche di una azienda o di un singolo prodotto o servizio.
Insieme a ESG, Economia Circolare e quant’altro, la Carbon Footprint è divenuta ormai un “mantra” cioè una formula che viene ripetuta molte volte come pratica meditativa, che ormai è parte della vita delle aziende; ma non solo di esse perché, attraverso la comunicazione, interessa anche quelle di noi tutti.
Chi paga per lo sviluppo sostenibile?
Oltre alle sigle, i numeri spiegano bene la direzione che si sta prendendo; si stima che gli investimenti con criteri ESG (Environment, Social, Governance) passeranno dagli attuali 18,4 trilioni di dollari ai 33,9 nel 2026, secondo una ricerca di Price Waterhouse Asset and Wealth Management (PwC, ossia una rete di professionisti estesa in tutto il Mondo, che abbiamo già incontrato sulla nostra strada).
Ci sarebbe da chiedersi il senso di considerare sostenibili investimenti solo per il fatto che affermano di considerare criteri ESG; dato che il 75% dei prodotti finanziari proposti sul mercato, secondo chi li propone, adottano questi criteri, viene da chiedersi se, oltre ad adottare criteri, ci sia qualcuno che ne valuti anche il reale impatto, in termini di impronta ecologica.
Ma il sospetto che ho e che esprimo è che l’unica impronta che interessa imprese e istituzioni finanziarie sia la carbon footprint, dato che è del tutto immateriale e, di conseguenza, si rivela essere la più adatta a raccontare storie di difficile verifica; il compianto Presidente Andreotti soleva ripetere: “A pensar male, si fa peccato, ma raramente si sbaglia!”.
Il cambiamento climatico (climate change) è il centro di tutto e la CO2, l’anidride carbonica, è nel mirino per essere considerata la maggior colpevole, se non l’unica, dei disastri ambientali che, in questi ultimi anni, hanno flagellato il Pianeta. Questa “grande colpevole” dev’essere combattuta come se fosse un virus che da eliminare assolutamente, attraverso una transizione energetica della quale pochi considerano i costi economici; invece, i costi economici legati alla transizione devono necessariamente essere considerati come l’elemento centrale da valutare, ovviamente assieme agli aspetti ambientali e sociali, quando si parla di sostenibilità.
Chi guadagna con lo sviluppo sostenibile?
Come spesso accade, nella trattazione delle problematiche legate alle variazioni climatiche, ci si concentra sempre e quasi esclusivamente sulle emissioni, soprattutto di CO2, che caratterizzano la vita utile di un prodotto o di un impianto di produzione di energia, senza per contro fare le debite valutazioni su quanto sia stata impattante la sua produzione o la sua realizzazione.
La transizione verso un mondo a emissioni zero non considera, ad esempio, l’enorme necessità di metalli per la sua realizzazione. Secondo l’International Energy Agency americana (IEA), il tema dell’intensità mineraria rappresenta un limite oggettivo a un obiettivo così radicale; pensate che gli studi inerenti questo problema hanno dimostrato che la produzione di un Megawatt di elettricità ottenuto utilizzando gas naturale richiede una tonnellata (1.000 Kg.!) di metalli critici; e tale quantità deve essere moltiplicata per dieci, se la medesima quantità di energia è ottenuta usando un impianto eolico a terra e addirittura per quindici, se l’impianto è in mare.
L’aumento della domanda di rame, zinco, manganese, etc., oltre a determinare un logico incremento del costo per l’acquisto, causerà anche un conseguente aumento nel prelievo degli stessi minerali, e questo è un fatto che si muove in direzione opposta rispetto alla reale sostenibilità.
Se, come ho scritto all’inizio, il costo stimato della transizione energetica potrà arrivare a toccare i 180 trilioni di dollari nei prossimi 50 anni e pur considerando il fatto su che queste previsioni è lecito farsi venire qualche dubbio, il punto focale è che le grandi società di consulenza non si pongono domande sulle conseguenze di tale conversione, affermando con totale sicurezza che non agire porterebbe costi ancora superiori per il sistema; sarà proprio vero? Mah!
Ma alla fine cos’è lo sviluppo sostenibile?
Senza entrare nel merito di quest’ultima affermazione, ciò che ci piacerebbe capire è quali saranno i soggetti che si faranno carico di sostenere un costo di questa entità che non esito a definire mostruosa e quali saranno i soggetti, invece, che ne trarranno i maggiori benefici economici.
Ed è proprio qui il punto: edilizia, mobilità, agricoltura e zootecnia iniziano già a doversi preoccupare e, di conseguenza, attrezzare, per fronteggiare le nuove norme ambientali decarbonizzate.
Ma una reale analisi costi/benefici della transizione energetica richiede valutazioni molto più approfondite. Lo sviluppo sostenibile considerava necessario produrre di più con meno risorse ma, in realtà, produrre energia rinnovabile oggi può essere un boomerang, per i costi collegati.
L’analisi di questa complessa situazione deve riportare informazioni e valutazioni corrette, cercando di essere scevra da ideologia, perché l’ideologia al potere ha, il più delle volte, creato disastri all’umanità.