L’anno che se ne va spesso ha la cattiva abitudine di portarsi via anche chi non vorresti che ti lasciasse. Il 2022 ha messo nella borsa troppo in fretta un Papa e un Re. Addio a Benedetto XVI che si era dimesso quasi dieci anni fa, primo nella storia, per far posto a un pontefice nuovo che avesse la forza di portare avanti la riforma della Chiesa in una fase storica cruciale. Papa Emerito, definizione coniata sul momento; quasi una riserva in panchina buona da consultare nei momenti difficili. Addio a Papa Ratzinger venuto dopo un pontefice popolare e anche populista come lo era stato Giovanni Paolo II, capace di scaldare gli stadi di ogni fede, di scagliarsi contro i terroristi, di urlare contro gli assassini. Uno che aveva ricucito l’Europa spaccata in due dalla “cortina di ferro” dopo la seconda guerra mondiale, uno che aveva combattuto il comunismo e lo aveva ricacciato ben oltre il muro, indietro fino a una Russia che con Gorbaciov sembrava illusoriamente stanca del suo stesso passato. La storia ha mostrato un’altra faccia, difficile cancellare. La guerra in corso è figlia di quel passato mai risolto.
Ratzinger se n’è andato lasciando a un Francesco invecchiato ma non domo il compito di concludere quello che lui aveva iniziato
Addio al 2022. Addio Re
L’anno si è portato via anche un Re, il re del calcio, a pochi giorni dalla conclusione dei mondiali in Qatar che hanno dimostrato come oggi più che mai il pallone sia un affare miliardario che esce da uno stadio e vola in Borsa e in politica. Non era più il calcio di Pelè perché non è più il calcio che fin qui abbiamo conosciuto. Bisognerà parlare di un calcio diverso, nuovo, spero ugualmente appassionante, popolare sempre. Il Qatar con i suoi mondiali e i suoi soldi ha stabilito un limite di non ritorno. Il calcio può e sa ricominciare.
Dopo il Papa, il Re
Pelè era il calcio, assoluto, fantasioso, allegro, potente e impegnativo. Non ha senso discutere se sia stato il più grande di sempre o se Maradona fosse addirittura migliore. Il genio, in qualsiasi arte, intrepreta e attraversa il suo tempo. Poi ne arriverà un altro.
Pelè ha unito almeno tre generazioni del pallone. Nella mia famiglia il calcio è stato Pelè per mio padre, per me, per i miei figli.
La prima volta che l’ho visto giocare ero in un bar dove mio padre aveva occupato il tavolino per la finale dei mondiali del 1958, Svezia-Brasile. Non c’era la tv in ogni casa, il bar era il cinema più economico, caffè e gelato in quella domenica di fine giugno alle ore 15 in punto. Quel bar si chiamava “Torino” in onore del Grande Torino di Valentino Mazzola che nove anni prima era scomparso nel rogo dell’aereo a Superga. E il mito resisteva, nella squadra carioca il centravanti di riserva era Josè Altafini detto “Mazzola”, perché ricordava Valentino; sarebbe prestissimo arrivato nel Milan.
Il Re distrugge il mito
Quella finale fu una lezione di calcio per il bambino che faceva collezione di figurine di calciatori e tifava per i molti svedesi che giocavano in Italia o ci avevano giocato: da Liedholm a Skoglund e Hamrin . Pelè che non aveva ancora 18 anni fece due gol, uno più bello dell’altro da antologia, da manuale del calcio, destro, sinistro, stop di petto, calcio al volo, testa, dribbling… In pochi minuti esibì tutto quello che un calciatore affermato non sarebbe mai riuscito a fare nella vita. E mise un segno, come aveva fatto Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino per far capire che era il più grande nella velocità e nel salto in lungo; come aveva fatto Fausto Coppi per dimostrare che solo lui era il Campionissimo. Da quel momento nel calcio incominciò a esistere il prima di Pelè e poi Pelè.
12 anni dopo
La mia generazione ha incontrato Pelè dodici anni dopo in un’altra finale, quella in Messico contro l’Italia. Lavoravo già nei giornali, le partite si svolgevano dall’altra parte del mondo quando da noi era notte fonda; quella storica, infinita con la Germania del 4-3 era durata quasi fino alla nostra alba. C’era Gigi Riva in azzurro, lo avevo visto tante volte giocare, lo conoscevo, speravo che segnasse. Ma contro esplose il Brasile più grande che abbia mai visto e il Pelè gigantesco, più grande di se stesso. Erano passati 12 anni dal primo dei suoi tre titoli mondiali.
Alla fine noi italiani siamo fatti così
Ho sempre pensato che quella partita per l’Italia non sia stata solo la fine di una speranza di conquistare la Coppa Rimet, ma proprio la fine di un sogno italiano. O meglio: la fine degli Anni Sessanta, di quello che era stato chiamato il “boom” perché in fondo siamo provinciali e parlare di miracolo economico ci sembrava poco gratificante. Ci voleva per chiudere qualcosa di più nazionalpopolare, più adatto alla nostra cultura, al nostro modo di vivere. Una partita che ci ha fatto sentire più ricchi e più felici, ma che un attimo dopo ci ha fatto ripiombare a terra meno felici e molto meno ricchi. Italia-Germania 4-3 era sembrata un prolungamento degli anni del miracolo riacciuffato per i capelli all’ultimo momento ma perché ci avevamo creduto ed eravamo stati bravi. Perché noi italiani siamo fatti così, dobbiamo essere a un passo da burrone per riscuoterci e riscoprirci se non eroi almeno un po’ coraggiosi. Ci fece sentire italiani ed era già una sensazione nuova.
Il Re ci riporta alla realtà
Ma la sconfitta col Brasile ci riprecipitò a terra. Quando Pelè in aria sovrastò Burgnich, che pure era tosto, e quasi sospeso in cielo colpì di testa il pallone mettendolo in rete, si capì perfettamente che il sogno si era sgonfiato, che il miracolo era durato una notte e si era spento all’alba. E con Burgnich detto la “Roccia” che precipitava a terra, si era capito che non sapevamo più volare. E gli italiani si comportarono peggio: al ritorno della Nazionale, anziché applaudire i vicecampioni del mondo, quelli che erano entrati nella piccola storia del calcio per la loro “partita del secolo”, li fischiarono come se avessero fatto schifo.
Il Re è sempre il Re e sa aspettare
C’è Pelè anche nella memoria dei miei due figli, non l’avevano mai visto giocare, sì qualche filmato mai però in diretta. Ma la rovesciava di Pelè ha riempito i loro sogni di aspiranti calciatori con le immagini del film di John Houston “Fuga per la vittoria”, forse il più bel film di calcio. In una Parigi occupata dai nazisti, in piena guerra, un gerarca idealista e tifoso favorisce una partita tra nazionali tedeschi e una serie confusa di prigionieri che sono stati calciatori di talento. Uno di loro è Pelè. La squadra dei prigionieri pareggia una gara viziata proprio con una rovesciata del Re. E’ bastato un ciak, Pelè non ripeteva, buona sempre la prima.
Per salutare ha atteso che entrasse in carica il nuovo Presidente del Brasile, Lula. Per il mondo era lui il Brasile, era lui il pallone. Si è arreso alla vita, non al sogno.
Addio Piccolo Principe
Il nuovo anno ha esordito portandosi via Gianluca Vialli. Ha combattuto cinque anni contro il cancro al pancreas, diceva di sapere che non avrebbe mai potuto vincere, che il cancro era un avversario troppo forte per un uomo. Se Pelè era il Re, Vialli era il Piccolo Principe del pallone. E come il Piccolo Principe si chiedeva: “Mi domando se le stelle sono illuminateperché ognuno possa un giorno trovare la sua”. L’uomo che segnava sempre e non aveva più paura della morte ha seguito la luce e ha trovato la sua stella.
Grazie per questo articolo. Sono tedesco e posso capire da leggere italiano ma la mia conoscenza della lingua non basta da scrivere qui un commento.