Questi mesi, quasi due anni ormai, sono un quantum di tempo a due livelli: c’è quello del presente, di fervorosa ripresa dallo choc pandemico, e insomma c’è grande attività ovunque per produrre e garantire la sicurezza economica (almeno quella). E c’è l’altro livello, che è il piano dell’attesa: non lo diciamo, ma guardiamo all’orizzonte dei giorni con ansia mescolata alla speranza: quando finirà la paura del contagio? Pensieri nascosti, intimi, quasi tenuti a freno, magari solo per scaramanzia.
Ma ce ne sono di espliciti, come questo di un artista, il pittore Tullio Pericoli: “Ho nominato più volte l’orizzonte e la linea dell’orizzonte, ma poi mi sono domandato che cos’è quell’orizzonte, è davvero il confine oltre il quale il paesaggio finisce?” L’ho ritagliato dal suo libretto di pensieri intitolato Arte a parte (Adelphi editore). Non so voi, ma a me sembra che l’artista marchigiano stia rispondendo alla nostra sotterranea inquietudine.
Pagina di diario
Leggendo la biografia di un amico prete, ho segnato questa frase, che illumina la sua e, forse, altre esistenze: “Il cammino della vita, [che] parte dal cuore e arriva al giorno di Dio”. L’ha scritta don Franco De Pieri (1938-2015). E mi viene facile aggiungervi questo vecchio appunto scritto in un diario non dimenticato:
“Pandemia, pandemia… C’è anche il tempo per pregare, come è naturale in una società imbevuta di ritualità cattolica (il papa in prima linea) e consapevole erede – più o meno – di una lunga tradizione che ha riflessi nella vita civile.
A me, in questi giorni coatti, viene incontro un ricordo lontano, di quando vivevo in paese: le rogazioni. Erano processioni di preghiera che si facevano nelle campagne del Veneto proprio in questa stagione di apertura uscendo dalla chiesa parrocchiale e dalle sue ombre profumate dalle candele. Si potevano ascoltare le voci oranti nella luce del mattino, in latino chiesastico, mentre intorno indugiava un velo di nebbia sospesa sui campi. In quel tempo, era ancora possibile percepire e riscoprire il senso della religiosità nella gente comune”. (Primavera del 2020)
V come vita, o vaccino
In un libro trovi una frase solenne: “La vita vale, come la libertà, in sé e per sé”. In un giornale, la cronaca si sforza di smentire sia il diritto che la filosofia: la vita, dicono i fatti, non ha lo stesso valore da noi o in Egitto (esempio non per caso) o altrove: là, nei buchi neri governati da dittature, addirittura il valore è zero: “corrosione di umanità”.
Parliamo della vita di persone, ma c’è anche la vita di beni universali, sia materiali sia culturali, come la foresta dolomitica violentata da Vaia oppure – perché no? – come Venezia.
Le vite spente dalla pandemia – uno sterminio che riguarda tutto il mondo – passano come pioggia sui vetri nella mente dei tanti che rifiutano il vaccino per sé e per tutti.
Intanto, nelle nazioni meno forti economicamente – e politicamente – i vaccini non arrivano in quantità necessarie, perché non ci sono risorse finanziarie adeguate ma fors’anche perché non c’è abbastanza tecnologia per conservarli alle basse temperature.
Esistenze minacciate, vite spente perché non hanno difese… E intanto si sente parlare a gran voce di umanità, umanità. Ma dove mettiamo, dice il saggio, “il dovere di umanità”?
La neve
(poesia)
Pensando ai due cari poeti
Mario dell’Altopiano e Andrea del Soligo
La neve, abito da sposa,
è meditazione. Il deserto
ne dispera, coi suoi cammelli
e sabbie. La neve è la sapienza
passeggera, manna e presenza
del cadere. Più lenta della neve
è la luce, quando fa
mezzogiorno – e là sta ferma.
Giuliano Scabia (1935-2021)
Riflessioni inprontate a “inquieti” ossimori che connotano di pacato, solidale coraggio una depressiva, dolente ansietà 🙂