Vincenzo Iaquinta, 41 anni, sta combattendo una battaglia infinita, per il padre Giuseppe, che ha visto scendere la sua condanna da 19 a 13 anni. Il campione del mondo ex Udinese ed ex Juventus vive un periodo nero dal 2012. “A noi la ‘ndrangheta fa schifo – spiega -, ci hanno massacrato. E’ stata un’ingenuità, non c’è una prova per la quale possano condannare mio padre a 13 anni. C’è una persona in carcere innocente”.
Cosa può avervi coinvolto in una simile inchiesta?
“E’ il cognome che abbiamo e perchè siamo calabresi, tutto qua. Mio padre è innocente perchè si chiama Iaquinta. Speriamo di avere giustizia con il terzo grado, in cassazione, anche grazie all’avvocato Ernesto De Toni. Se va a prendere tutti i processi in Aemilia, mio padre non si trova in nessun atto. Hanno solo rovinato una fa-miglia, siamo sfiniti”.
Quando cominciò l’incubo?
“Nel 2012, quando gli ritirarono la white list, con l’azienda, e poi il porto d’armi. La Costruzioni Iaquinta è in piedi. Il papà ebbe il fallimento con la sua società, facemmo un concordato, da cui siamo rientrati. Anche lì, il curatore ha avuto in mano la società per un anno, ci fosse stato qualcosa di illegale, sarebbe andato dai pm, a evidenziare incongruenze. La società invece è tornata in bonis”.
Il fatto di conoscere mafiosi non era già un segnale compromettente?
“Con quel metro, in tanti dovremmo essere in carcere. Provo ribrezzo per questo accostamento alla ‘ndrangheta, neanche sappiamo dove stia di casa. All’epoca fu mio padre a chiedere controlli, per far verificare che persona fosse. La Finanza c’era stata e aveva controllato tutto, non c’era nulla, neanche con le banche. Neanche un appalto”.
Che cosa potete rimproverarvi?
“Di nulla. Papà ha sempre lavorato, senza mai dare fastidio a nessuno, ha fatto tutto da solo, partì dalla Ca-labria a 16 anni, con mamma. E’ nel Reggiano da mezzo secolo, incensurato, mai multato. Con tutto quanto ho guadagnato in carriera, avevo bisogno dei soldi sporchi della ‘ndrangheta?”.
Crede ancora alla giustizia?
“Me l’aspetto nell’ultimo grado. I primi due sono stati uno schifo, devo avere fiducia, del resto hanno in mano mio padre, però debbono leggere le carte processuali, non si possono sparare 13 anni per un pranzo, per una maglietta, per un matrimonio, per due ombrelloni rubati e poi restituiti”.
Ma come conosceva Nicolino Grande Aracri, il boss principale al centro del processo Aemilia?
“Da bambino, sono coetanei, giocavano insieme e poi si persero di vista. Papà all’inizio si trasferì a Milano, dormiva in fabbrica, con il fratello, poi si trasferì nel Reggiano dove vi-veva in condizioni non certo eccel-lenti, in una casa con il bagno esterno, piena di umidità… Volle che mamma mi partorisse in Calabria, in un clima migliore. Mi lasciò là per tre mesi, in attesa che venisse sistemata la casa. All’inizio era muratore dipendente, poi si mise in proprio, con una piccola impresa edile”.
Lei invece era troppo bravo a giocare a calcio…
“Papà non voleva che andassi in cantiere, una volta l’accompagnai comunque e mi disse: “Attento al palo”. Alla fine ci ho sbattuto per davvero e allora mi rimandò a giocare a pallone, avevo 15 anni”.
Papà da quanto è in carcere?
“Dal 31 ottobre 2018. Fece quasi 3 mesi nel 2015, con due cassazioni favorevoli uscì dalla galera. Continua a chiedersi dove si appoggi una condanna così pesante, dove sono le prove. Anche gli avvocati sono sconvolti. Non avessimo ragione, non solleveremmo questo polverone. Chi commette un reato tende a nascondersi. Ci conoscono in tanti, da queste parti, avere vinto il mondiale, giocato 6 anni nella Juventus e anni nell’Udinese, offre popolarità”.
Rifarà proteste clamorose, come due anni fa?
“Beh, chi è colpevole se ne sta zitto, ma chi è innocente urla la sua verità. Stavolta non sono andato a Bologna, alla lettura della sentenza, proprio per evitare di uscire di senno. Ho preferito restare in famiglia”.
A metà dicembre, aveva preferito restare a festeggiare i 18 anni di Giuseppe
“Studia al liceo sportivo, a Reggio, e gioca a calcio. Questa vicenda ha rovinato la famiglia, accelerando la morte di mamma Vittoria, un anno fa: aveva un brutto male, negli ultimi mesi si era lasciata morire, dovetti assisterla io. La polizia giudiziaria comunque acconsentì a che papà venisse al funerale, anche senza essere tallonato e senza le manette, gli agenti furono molto umani”.
Lei quante volte è stato interrogato?
“Una sola, al processo di Reggio Emilia. In primo grado chiesero per me 6 anni, in base all’articolo 7, la corte mi condannò a due anni, senza sospensione della pena, cosa che adesso è arrivata. Essendo incensurato, non sono mai stato dentro”.
Vincenzo, ora cosa fa?
“Collaboravo con la Reggiana, prima della promozione in serie B. Poi avevo creato una sorta di scuola calcio. Con il Covid l’ho fermata”.
A 63 anni, papà Iaquinta insegue il suo gol, dopo averne visti tanti, del figlio.