Le elezioni presidenziali Usa travalicano la dimensione nazionale e spandono effetti su tutto il mondo. La vecchia Europa è uno degli scenari nei quali le politiche statunitensi influiscono direttamente sia in campo economico che politico, cambiando le priorità e ridefinendo gli impegni. Mario Draghi, già presidente della Banca Centrale Europea e Presidente del Consiglio italiano, da tempo indica in una nuova relazione con gli Stati Uniti una necessità imprescindibile delle nuove architetture europee, una spinta al cambiamento verso una maggiore capacità competitiva ed una maggiore agilità di risposta delle intorpidite membra produttive continentali.
L’incarico a Mario Draghi
Nella parte conclusiva del suo precedente mandato, Ursula Van der Layen ha incaricato Draghi di analizzare il sistema economico continentale per cercare una risposta alla perdita di competitività rispetto ai principali competitor internazionali, Usa e Cina; frutto di questo lavoro è stato il Rapporto Draghi, corposo lavoro di oltre 400 pagine, che ha evidenziato una serie di problematiche strutturali che marcano la differenza tra l’Europa e gli altri big mondiali.
L’elezione di Trump, con il suo annunciato portato di liberismo e di barriere doganali, ha risvegliato prepotentemente lo spetro di una nostra progressiva marginalizzazione europea rispetto al principale partner commerciale e politico; una difficoltà resa ancora più preoccupante dalla probabile necessità di maggiori investimenti nella difesa, a fronte di un disimpegno americano.
Il Consiglio europeo
Nel corso del Consiglio europeo informale di Budapest Draghi ha nuovamente sottolineato i pericoli insiti nell’attuale sistema produttivo continentale, ottenendo la sponda della presidente della Commissione che si è impegnata a trasformare il Rapporto in norma, nel giro di 6-8 mesi.
Si dovrebbe passare così dalla teoria alla pratica, dall’immaginare una via d’uscita dall’attuale difficoltà competitiva ad intraprendere il percorso di rilancio del sistema produttivo ed industriale europeo che, per la sua concreta realizzazione, prevede un enorme volume di finanziamenti condivisi, pari a 800 miliardi di euro all’anno, punto nodale e problematico da cui dipenderà la sorte della competitività dell’U.E.
Ci sono grandi cambiamenti in vista — ha spiegato l’ex presidente della Bce — e credo che quello che l’Europa non può più fare è posporre le decisioni.
L’invito di Mario Draghi
Affrontare la stagnazione dell’economia continentale, con il ritorno di Trump, farà una grande differenza e dato che da soli siamo troppo piccoli dovremo accelerare verso una sorta di Federazione europea, una dimensione tale da consentirci di trattare con l’alleato americano in maniera tale da proteggere anche i nostri produttori europei, passando anche per l’aumento della spesa per la difesa fino al 2% del Pil, rispettando il patto di stabilità.
La centralità che il vertice ha attribuito al Rapporto Draghi, emerge dalla dichiarazione finale che indica come le sfide di competitività che affrontiamo richiederanno investimenti significativi, mobilitando finanziamenti sia pubblici che privati, uno dei punti nevralgici di quanto proposto dal nostro ex premier;ci impegniamo a esplorare e sfruttare tutti gli strumenti e i mezzi per raggiungere i nostri obiettivi, conclude il comunicato.
Cosa emerge dal rapporto di Mario Draghi
È evidente la necessità di ricorrere a nuove forme di debito comune – sulla scorta di quanto è stato fatto con il recovery fund – che passano attraverso il raggiungimento di forme di consenso nella gestione ed utilizzo del bilancio comunitario che non saranno né facili né scontate.
Alla tradizionale contrapposizione tra frugali e mediterranei si affianca la crescente e vasta divaricazione tra tra sovranisti e unionisti, tra paesi che vogliono una Europa a la cartee paesi più collaborativi sul piano comunitario. Dal confronto dialettico tra queste due spinte dipenderà il se ed il quanto verrà dedicato alle ricette draghiane, che può avere senso solo attraverso un adeguato e prolungato sforzo economico specifico da finanziare in vari modi, compresa la creazione di appositi Eurobond, ossia titoli di debito pubblico emessi dall’Europa e simili a quelli degli stati membri, che già sono una tipologia di investimento tradizionale per i risparmiatori europei.
Dal lato della Commissione,la presidente von der Leyen ha dichiarato che presenterà a giugno la sua strategia basata sul rapporto di Mario checi indica la strada, traguardando anche altre priorità, tra le quali un clean deal per l’industria.Per finanziare le priorità comuni, anche sulla difesa, non è intelligente procedere individualmente ma è molto meglio finanziarle su scala europea ha continuato la von der Layen, evidenziando come la vera linea del fronte sia quella dello scioglimento delle resistenze interne tra stati membri.
Scholz
Il Cancelliere Scholz, oramai giunto al termine della sua corsa, ha comunque ribadito che il Rapporto è un chiaro campanello d’allarme per l’Europa. Mentre il premier ungherese Victor Orban – nella veste di padrone di casa – ha preferito glissare sulle divergenze, riservandole ai confronti bruxellesi.
Ma la crisi economica e politica della Germania è un grande elemento di complessità. Che si affianca alla non felice situazione politica francese e al momento delicato della politica spagnola. Ai quali si aggiunge una fluttuante e poco precisa posizione italiana. Tutti elementi che trovano ulteriore ostacolo dai mutati equilibri americani per i quali il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Nonostante fosse un esito largamente previsto, farà una grande differenza nelle relazioni tra gli Usa e l’Europa, non necessariamente tutta in senso negativo. Ha ribadito Mario Draghi.
Mario Draghi e la crisi economica
L’ex banchiere centrale ha infatti sostenuto come la necessità impellente di riposizionarsi rispetto ai probabili spostamenti degli equilibri economico commerciali transatlantici, induca il nostro continente a scelte precise e rapide. Che possono avere l’effetto positivo di portare a decisioni tempestive. Non si può più posporre le decisioni, non possiamo più permetterci di aspettare di raggiungere il consenso.
In questo clima il vertice di Budapest si è concluso con una dichiarazione dal duplice aspetto.
Da un lato quella di essere il frutto di una particolare debolezza, l’essere stata pronunciata da leader indeboliti e poco lungimiranti. Che ha portato alla dichiarazione di intenti di un’apertura ad esplorare lo sviluppo di nuovi strumenti di finanziamento. Ancora tutta da definire e contrattare nella forma e nella quantità. Dall’altra, di muoversi in uno scenario globale di magmatica fluidità. Che può però fornire una forte spinta, dagli accenti un po’ angoscianti ma precisi, per un salto in avanti che può essere decisivo.