Diceva: “Il mondo è pieno di mali, e l’uomo sembra un giocattolo del destino”.
Diceva: “La superstizione è la fede dei non credenti, o anche l’ateismo dei credenti”.
Ancora diceva: “L’esistenza del cristiano deve essere povera e autentica”, ma ci vuole coraggio che spesso manca anche ai forti “perché suppone la vittoria non sopraffattrice degli altri ma su sé stessi”.
In queste frasi risuona la voce di una personalità fra le più fascinose e inquiete che ho incontrato: monsignor Valentino Vecchi (1916-1984) parroco del Duomo a Mestre per più di vent’anni. Nei giorni scorsi è stato celebrato il quarantesimo anniversario della sua morte, un evento cittadino che ha coinvolto emotivamente migliaia di persone, compreso il sottoscritto, e ha riguardato in modo particolare una città, anzi l’idea di una città: quella Mestre “giovane” in cui lo incontrai quando, cronista del Gazzettino un po’ timido e molto curioso, gli chiesi un’intervista.
Venivo da Ca’ Faccanon in centro storico, da una Venezia carica di storia e di minacce alla sua sicurezza, ma compiuta come forma urbis, ed entravo in una Mestre incompiuta: volevo, anzi dovevo, imparare a conoscerla e alla svelta. E lui, il Monsignore – non ho mai osato chiamarlo don Valentino – è stato la mia guida prima di donarmi la sua amicizia di “lunghi giorni”.
La visione del futuro di Don Vecchi
Il suo biografo Paolo Fusco ha definito “visione” di futuro l’idea che il sacerdote coltivava nel suo intimo mentre, in concreto, come “imprenditore di Dio” (registrato da Pia Deppieri), faceva nascere luoghi per la diffusione della cultura, “per curare lo spirito”, per soccorrere gli emarginati e le solitudini, luoghi simbolici di una comunità inclusi gli spazi per i giovani e per il tempo liberato.
Nel ricordo documentato che ne ha fatto in Duomo la sera dell’anniversario (quasi in continuazione dell’omelia di mons. Bernardi attuale parroco) Paolo Fusco ha tenuto presente, e lo ha ricordato a chiare lettere per i cittadini d’oggi, il legame vivo che mons. Vecchi coltivò fra l’Utopia e la Realtà lasciando a quest’ultima l’ultima parola.
Mestre, negli anni Sessanta, e per i venti successivi, è stata una città mobile, tumultuosa dal punto di vista dello sviluppo fisico, ma per Monsignore non aveva ancora un’anima, un carattere, ovvero una identità. E così la realtà sociale o semplicemente umana della città di terraferma divenne una sfida per chi, come Lui, sapeva “leggere la vita” avendo raffinata cultura e sensibilità adeguate alla risposta.
Il suo principale collaboratore, don Franco De Pieri, ha fotografato l’effetto dell’attività pastorale del Monsignore con parole inimitabili: “Ha fatto di San Lorenzo (la parrocchia al centro della città) la fontana del paese presso la quale tutti potevano trovare una risposta”.
Una fontana che evocava il magnetismo del pozzo biblico.
Da un santo all’altro
Si può inciampare in certe parole senza essere balbuzienti: sono vaganti fra i pensieri, ti si fermano in gola e devi liberartene. Nei giorni scorsi, la parola, per me, è stata samichièle, che, nel dialetto veneto del medio Polesine, significa San Michele (29 settembre) ed era il giorno in cui, come il samartin nelle campagne più a nord (11 novembre) al tempo dei miei nonni, nel Veneto si potevano incontrare lungo le strade bianche che congiungevano i paesi, carretti trainati da buoi che portavano più figli che masserizie (cioè quatro strasse…): erano le famiglie contadine che, avendo ricevuto lo sfratto, lasciavano la casa al padrone e andavano a piantare le loro fragili radici altrove.
Quegli spostamenti erano un rito antico che segnava tanti destini: il periodo dell’anno era scelto perché i lavori agricoli erano sospesi, la terra arata e seminata “dormiva” in attesa della primavera. Era allora una migrazione che avveniva nello spazio geografico della campagna in cui si nasceva da generazioni, quasi sempre entro i confini del Comune; il che era comunque meglio, si fa per dire, della fuga di tanti altri che si imbarcavano a migliaia per le Americhe e andavano a dissodare terre ignote, fra gente strana: un viaggio senza ritorno.
Tre strofe
(poesia)
Se alziamo le vele e andiamo per mare
chi resterà a dondolare la culla? Chi ci sarà?
Se sono le donne a viaggiare oltremare,
chi sarò in casa quando torni per cena?
Se ce ne andremo a caccia con gli uomini
il fuoco chi l’accenderà? Il pane chi l’infornerà?
Chi catturerà gli incubi e li spazzerà via
se ci metteremo in mare e andremo via?
Gli uomini diventeranno teneri? E i bambini forti?
Chi insegnerà la madrelingua e canterà per loro?
Se ci allontaneremo per più di un giorno
chi vorrà loro bene quando noi saremo via?
Gillian Clarke
Da Una ricetta per l’acqua, Il ponte del sale editore
Rovigo 2014
Leggerti,Ivo,è la mia festa domenicale.
Quando , all’ alba , parcheggiava sul sagrato di San Lorenzo la corriera che avrebbe portato a Misurina i bambini , Monsignore era sempre presente per benedirli . Una mattina si rivolse a noi genitori e ci disse :” I vostri figli staranno bene senza di voi . Sarete voi a stare male, senza di loro !
Monsignor Vecchi aveva ben chiaro il concetto della solitudine degli adulti , senza i progetti di futuro che solo le nuove generazioni possono dare .
Ed aveva ben chiaro il concetto dellacomunità parrocchiale: Egli l’ ispiratore , Don Franco l’ organizzatore , Don Cesare il mediatore , la Signora Micciche’ la cuoca, il Sig.Caramaschi l’ organista …. Riuscì a coinvolgere tutti , al punto che ci sentivamo reciprocamente responsabili . Eravamo la vera “Ecclesia ” . Alla Sua morte, ci sentimmo tutti orfani .
Per grazia di Dio , subentrarono altre creature , come Nadia ed Ivo , che si sono caricati questo fardello e lo portano avanti .
È evidente che Monsignor Vecchi provvede dal Paradiso, ancora.