Trovo commovente lo sforzo di certi scrittori che amiamo quando chiamano alla responsabilità i politici, governanti o governati non importa, la categoria è vasta e molto stratificata. Periodicamente, le voci di questi intellettuali – che riversano nelle loro opere turbamenti e visioni – vengono registrate nei media più diffusi o, semplicemente, le loro parole accorate le troviamo stampate a futura memoria sui quotidiani.
Dici che la letteratura fa la predica alla politica? Anche se fosse vero, non vedo lo scandalo: possiamo sempre dire che ci sono agli atti le memorabili “prediche inutili” di un Capo di Stato, l’economista Luigi Einaudi (1874-1961).
Ma parliamo, oggi, di autori viventi come lo scrittore triestino Paolo Rumiz che di recente ha detto: “La politica sta perdendo vocaboli”, e di conseguenza il suo linguaggio si fa più povero. Da qui la sollecitazione dell’autore triestino ai politici – orgogliosa, dirà qualcuno – perché si rivolgano alla letteratura, la sola in grado di rifornire lorsignori di parole entro “il quadro politico”. A che scopo? Rumiz non ha dubbi: la letteratura consentirà al popolo politicante di “riempire il discorso di emozionalità” (così il Corsera).
In fondo, si tratta di usare le parole con più rispetto dico io, con sentimento dice Rumiz. Il risultato è un linguaggio più ricco e meno banale al quale troppo spesso manca “il peso della realtà”. La conseguenza è che siamo percossi da gragnuole di parole che sono dure e inerti come gusci vuoti. Però… Però, attenzione: questo impoverimento del vocabolario italiano ci riguarda tutti, poiché la “perdita di vocaboli” avviene, sì nell’olimpo del politichese a tutti i livelli, ma con uguale frequenza nel popolo dei governati.
A questo proposito, mi torna in mente una osservazione del giornalista Giandomenico Cortese riguardo al quotidiano uso della nostra lingua, che definisce farcita di “parole basse” e di infestanti “slogan da social”. Insomma, se riuscissimo a creare dialoghi di livello quotidiano – diciamo, scherzando, dialoghi dei minimi sistemi – se usassimo meno frasi fatte recitate in video e più “emozionalità”, ne verrebbe un bene per tutti, come persone e come comunità. Ma bisogna crederci.
Di chi sono le città
Quando ha sentito lo slogan “Riprendiamoci la città” lanciato sabato 28 settembre dai promotori della marcia pacifica in memoria di Giacomo Jack Gobbato assassinato in pieno centro a Mestre, pare che il sindaco di Venezia – come riferito dalle cronache – abbia sbottato: “Perché, è vostra?”
Sottovoce noi diciamo: Sì. È di noi cittadini, punto (ma spesso lo dimentichiamo…). Quanto a lui, il primo cittadino, la risposta tracotante sembra sottintendere che la città è sua, o “dei suoi” avendola conquistata a suon di voti fucsia. Quel colore elettorale è lo stesso che, ancora oggi, in certe occasioni illumina il municipio di Mestre, e non importa se, così facendo, un simbolo civico, cioè di tutti, viene usato per dare aria ad un simbolo privato, personale.
Il colore del Palazzo conquistato come fosse la Fortezza Bastiani, a qualcuno sembra una esibizione di potere. In barba alla democrazia. E al buon gusto.
Comunque, l’Anonimo può dire convintamente che c’era bellezza in quella fiumana di gente pacifica, punteggiata da bambini e malati in carrozzella: l’estetica non c’entra, ma diecimila testimoni di una appartenenza comune sono qualcosa di toccante: un flusso di umanità solidale accompagnata da musiche e da bandiere frementi come farfalle di tanti colori. Il colore del sindaco non c’era.
Parole in versi
(poesia)
Parole lucidate dai retori
di questo mondo collerico
e di facili entusiasmi
Parole inghiottite in silenzio
parole perdute nel deserto
della nostra fragilità
Parole come semi piantati
nei cuori della gente
perché germoglino domani
Parole d’un cocktail filosofico:
anomalia chiama ignoto,
l’inatteso convoca il mistero
E tu, che di enigmi sparsi
e di sogni sei cultore,
quali parole vai proponendo?
Anonimo ‘24’
E tu, quali parole vai proponendo ?
Io , modestamente , proporrei lo studio. del latino , a cominciare dalle elementari, e più ancora nelle scuole medie , come avviene in Belgio, in Spagna , in Romania , in Croazia , in Bulgaria , in Portogallo e persino in Cina.
Forse finirebbe la moda dei facili slogan e si ricomincerebbe a dire cose serie, anziché dare aria alla bocca.