Il titolo di questa silloge di Michela Manente, appena uscita per Kanaga Edizioni, dice già moltissimo: Poesie della conoscenza, ovvero un grandangolo sul mondo e sull’esistenza umana, con tutte le sfumature che l’esperienza quotidiana e l’approccio fenomenologico consentono. In più Manente vi aggiunge, empatica ma con il giusto distacco critico, un’elaborazione conoscitiva che fissa le emozioni, le condensa.
Senza giudizio, ma anche senza nascondersi. Con amore, ma anche con rabbia. Con nostalgia, ma rimanendo ancorata al presente; utilizzando gli espedienti retorici di una narrazione che, dal verso, vira talvolta alla prosa poetica, all’invocazione.
Le liriche di Michela Manente
Così le liriche assumono l’aspetto di una costellazione di racconti, spesso incentrati sul dramma degli amori tossici, dei femminicidi. Parlano di abbandono, di lontananze. Tuttavia, l’universo della poetessa si nutre anche d’incontri fatali e di congiunzioni, come si esplicita in L’incontro, dove Michela pone in essere un’inconsueta correlazione tra Maria Luisa Spaziani – memoria lirica dell’ermetismo europeo – e l’astronoma Margherita Hack: La parola che echeggia / nelle rifrazioni nel cielo / lassù, ove sistemi indefiniti / di cui è chiara la consistenza / dell’inconsistente, ove noi / ci specchiamo coi lumi / alla palla di cera.
Ecco che l’aderenza all’attualità lascia il posto ad una dimensione extrasensoriale, perché conoscenza – per l’autrice – è un concetto complesso, come la vita. Del resto Manente – scrittrice, giornalista e critica cinematografica, ha ben chiare le diverse sfaccettature del fare cultura: è dirigente scolastica e ha già pubblicato monografie e ben cinque raccolte poetiche (nella più recente, del 2020, ha indagato la forma dell’haiku, che ripropone anche in questa silloge).
Rispetto ai testi precedenti, tuttavia, qui Michela esercita una maggiore libertà compositiva, pur mantenendo una specifica ricercatezza nella terminologia; talvolta sceglie aggettivazioni poco consuete, utilizza elisioni e modula la lingua secondo ritmi d’altri tempi: vegg’io un ramo / secco con un’unica foglia verdolina / tremebonda pronta a una danza / nel vuoto … (da L’attesa).
La conoscenza non prevede estraneità nei confronti del mondo, ma consonanze tessute con partecipazione
Per questo le liriche di Manente, anche se rimangono saldamente radicate nella tradizione poetica novecentesca, se ne distaccano per immersione: l’esistente è plurimo, ha mille voci e mille volti. Come ha scritto Elisabetta Ticcò nella bella Prefazione, quello di Michela è «un viaggio dentro e fuori di sé, dove non vuole dimenticare ciò che l’ha fatta più matura e consapevole, ma insieme vuole abbandonarsi, se può, alla libertà dell’essenza vitale». Persino la guerra ne esce trasfigurata, vista attraverso gli occhi dell’infanzia: Scoppiata era. Era la guerra. / Era … bella. / In campagna evacuata con mia mamma / preparavamo l’impasto / Com’era brava la mamma! / Com’ero serena! / “Svelta, Gabriella, usciamo!”. / Siamo corse fuori, / veloci giù nel fosso. / Non sapevo, non capivo. / Mi godevo tutta per me / la mia mamma. (La guerra bella).
Potere dell’inconsapevolezza, con quei rari squarci nel buio che, talvolta, sanno regalarci i poeti.