Stazione ferroviaria di Trieste, mattina presto. Nella piazza prospiciente è facile incontrare ragazzi che trasportano taniche d’acqua. La sera sono di nuovo in fila per un piatto caldo. La città, tuttavia, nel suo complesso, preferisce non vedere, tutta intenta a difendere il proprio decoro: perché quei giovani, che continuano ad arrivare a Trieste, stremati, zoppicanti, con i piedi piagati, vivono (o meglio sopravvivono) ad un passo dalla piazza della stazione, in un silos fatto di cemento e fango, grande e degradato edificio di proprietà di COOP Alleanza 3.0.
Chi sono
Sono quasi tutti giovani maschi, per lo più tra i venti e i trent’anni: arrivano qui da soli o in piccoli gruppi dal Bangladesh, dal Pakistan, dall’Afghanistan, dall’Iran o dalla Siria, attraverso la cosiddetta Rotta Balcanica; quell’itinerario infernale, pericoloso che fa loro varcare i confini dall’Iran alla Turchia, dalla Grecia o dalla Bulgaria alla Macedonia, al Kosovo, fino alla Serbia, alla Bosnia, alla Croazia, alla Slovenia.
Niente acqua o servizi igienici, né corrente elettrica o riscaldamento.Spesso ricacciati indietro, anche ripetutamente, qualche volta denudati e privati delle scarpe con brutalità alle frontiere, costretti a proseguire scalzi: lo chiamano con atroce sarcasmo the game, quel gioco d’azzardo per guadagnarsi l’Europa, affrontando il ricatto dei trafficanti e l’orrore dei respingimenti. Troppo rischioso iniziare il viaggio con le famiglie. Trieste è una tappa obbligata, necessaria sia per coloro che chiedono immediatamente asilo dopo il loro arrivo in Italia (e sono una minoranza) sia per chi intende raggiungere altre destinazioni europee.
Un silos di cemento lasciato all’incuria
Solo freddo e bora d’inverno, topi e incuria. Il Silos, nei momenti di grande affluenza, ospita (termine più che mai eufemistico) anche quattrocento persone. Da gennaio a luglio 2023 sono arrivate in città, (dati del Ministero dell’Interno), 7890 persone, soprattutto durante i mesi invernali, quando la rotta è meno trafficata, principalmente per il freddo.
Un viaggio costoso
Il viaggio, se affrontato con un passaporto afghano, pakistano o bengalese, può costare fino a quindicimila euro. Secondo il report Vite abbandonate prodotto dal Consorzio Italiano di Solidarietà, Ufficio Rifugiati Onlus, i giovani abbandonano i loro Paesi d’origine (specie il Pakistan) non solo per la grave instabilità socio-politica, ma anche per l’esposizione di queste terre ad eventi climatici estremi: inondazioni improvvise, siccità.
E richiedere asilo, una volta giunti in Italia, non è per nulla semplice. Bisogna formalizzare la domanda e rilasciare le proprie impronte digitali presso la Questura. Così facendo, si attesta anche di non avere mezzi di sostentamento, chiedendo alla Prefettura di provvedere alla concessione di un posto in uno dei centri di accoglienza per richiedenti asilo presenti sul territorio. Ma a Trieste, come in altre città, i posti non sono mai sufficienti. Per di più, all’arrivo in Italia, come in qualsiasi altro Paese europeo, il primo pensiero dei migranti è quello di trovare un lavoro, per ripagare gli alti interessi del viaggio a strozzini e trafficanti: un progetto quasi irrealizzabile, visti i tempi della burocrazia italiana.
Trieste e il Silos
Così il Silos è divenuto, nonostante le condizioni di assoluto degrado, una scelta per molte persone. Presenti, ma invisibili, se non per i volontari che caparbiamente, ogni mattina e ogni sera, continuano a prendersene cura: appunto il Consorzio Italiano di Solidarietà, un’associazione laica senza scopo di lucro nata nel 1998, che da oltre vent’anni svolge un’opera di tutela a favore di richiedenti asilo, rifugiati e persone titolari di protezione sussidiaria o umanitaria presenti a Trieste o in Friuli Venezia Giulia.
Che succederà al Silos di Trieste
Secondo il principio della deistituzionalizzazione propugnato da Basaglia, il Consorzio ha messo a disposizione 180 appartamenti diffusi sul territorio, che non sono tuttavia sufficienti ad accogliere tutti. Oppure, a sostenere i migranti del Silos, pensa la Comunità di San Martino al Campo con il suo Centro Diurno: una Onlus nata agli inizi degli anni Settanta grazie ad un giovane sacerdote, don Mario Vatta che, inizialmente, con un piccolo gruppo di amici, inizia ad occuparsi di giovani tossicodipendenti. Nei decenni, la Comunità – che deve il suo nome all’omonima chiesa londinese che offre riparo notturno ai senzatetto – è cresciuta, diversificando le proprie funzioni: accoglienza, ascolto, condivisione, ospitalità sono le parole d’ordine dei suoi volontari.
Si continua a parlare di sgombero
Mentre si continua a parlare di sgombero imminente della struttura (senza specificare con chiarezza dove sarebbero ricollocati i migranti e quale percorso di reinserimento sociale dovrebbe essere posto in atto), nelle tende da campeggio del Silos si sta vicini per combattere il freddo e la disumanizzazione, con gli abiti stesi ad asciugare tra il fango, i topi e i rifiuti. Una straordinaria fotoreporter, Barbara Zanon, è riuscita ad entrare e a testimoniare con i suoi scatti la vita all’interno di questo cantiere mai ultimato, una cattedrale dell’abbandono.
Quel servizio è oggi divenuto una mostra, in corso fino al prossimo 13 luglio presso la sede veneziana di Emergency, alla Giudecca. S’intitola Invisibili e racconta, con commovente lucidità, di un formidabile tentativo di reinventare una quotidianità. Bisogno di casa, ricordi, tradizioni, impegno per apparecchiare una tavola, tra sgabelli di fortuna e poltrone recuperate fuori da qualche cassonetto. Improvvisi sprazzi di colore, azzurro, rosso, tra le tende da campo, in tanta desolazione. Sono immagini incredibili, eppure assolutamente concrete, che narrano la forza della vita, nonostante tutto. La necessità della condivisione, l’importanza dell’aiuto.
L’autrice, Barbara Zanon, è una ritrattista professionista dal 2004
Ha pubblicato sulle maggiori testate nazionali e internazionali come Life, Repubblica, Vogue, Gruppo Espresso, Stern, El Mundo, El Pais e molte altre; ha vinto alcuni tra i più importanti concorsi di fotografia. Oltre ad aver esposto in collettive e personali in tutto il mondo, collabora da quindici anni con l’agenzia Getty Images. Fa parte, inoltre, dell’associazione internazionale Women Photograph che opera a tutela dello sguardo femminile e di tutte le minoranze spesso discriminate e non rappresentate: forse è questa chiave che le ha consentito di narrare il Silos con rispetto ed efficacia, senza sensazionalismi, con l’intento preciso di suscitare dibattito.
Trieste, il Silos e Barbara Zanon
Emergency, poi, è il posto giusto per riflettere: attraverso il reportage di Zanon e i documentari sulla vicenda triestina di PIF da Caro Marziano, messi a disposizione dalla Direzione Teche RAI, l’intenzione è sempre quella di gettare luce sulle sofferenze di chi, non per sua scelta, scappa da guerre, catastrofi naturali, povertà.
Allo stesso modo, si vuole valorizzare il lavoro dei volontari che, di giorno e di notte, senza proclami, danno attuazione ai principi di uguaglianza, giustizia, responsabilità. Si tratta anche di una riflessione amara, mentre le istituzioni locali e nazionali pensano solo a dismettere il Silos, mentre si organizzano ronde sul Carso e si piazzano fotocellule per impedire gli arrivi: «Speriamo che la dismissione – si dichiara ad Emergency – non consista solo nello spingere fuori le persone, per renderle ancora più invisibili, o per trasferirle in uno di quelli che chiamano centri d’accoglienza, ma sono delle vere prigioni». Il dubbio è legittimo.
Intanto sempre a Trieste…
Intanto, nella piazza della Libertà a Trieste, rinominata Piazza del Mondo, gli operatori di Linea d’Ombra, un’altra associazione fondamentale per l’assistenza ai migranti, sono sempre presenti, giorno dopo giorno. Dal 2019 Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, i fondatori, hanno deciso che non si poteva più stare a guardare: «Non vogliamo però – sostiene Fornasir – che si dica che facciamo “assistenza”. Il nostro è un atto politico e un atto d’amore. Bisogna esserci, perché l’amore e il gesto della cura richiedono presenza … siamo testimoni, insieme a chi opera con noi, di una militanza che parte dai bisogni del corpo».
Dedicarsi agli altri
Per questo Lorena ha deciso di occuparsi di quelle estremità martoriate, di chi zoppica perché è arrivato scalzo: «Toccare quei piedi feriti – puntualizza – significa toccare la dimensione basilare della vita». Intorno a questo principio, ogni mattina e ogni sera, senza finanziamenti pubblici, si raduna un universo più consapevole: chi cucina, chi medica, chi offre una doccia, una presa di corrente per ricaricare il cellulare, abiti e scarpe. Oppure una fotografia – decisiva, assoluta – che ci renda tutti meno invisibili, a noi stessi e agli altri.
Invisibili. Reportage dal Silos di Trieste
presso la sede Emergency di Venezia (Giudecca 212)
dal mercoledì al sabato, 11:00 – 18:00
ingresso gratuito, fino al 13 luglio
Per info: infovenice@emergency.it oppure 041 877931