“Perché sono diventato inviato di guerra? Più che dare una motivazione potrei spiegarlo raccontando un episodio. Durante la guerra dei Balcani a Sarajevo, ci fu uno dei tanti bombardamenti. Ero per strada e sentita l’allerta mi sono precipitato in un rifugio assieme alla gente. Nei ricoveri solitamente ci si siede e mentre si aspetta che finiscano i colpi si osserva attorno, ci si guarda, ci si parla per stemperare la paura. Quella volta mi ritrovai con altri due corrispondenti di guerra esteri. Ci siamo un po’ raccontati e abbiamo scoperto di avere un punto in comune: eravamo tutti e tre separati”. Così raccontava i suoi esordi come inviato di guerra Franco di Mare durante la presentazione del suo primo romanzo, “Il cecchino e la bambina”, scritto nel 2009. Eravamo nell’isola di Albarella, in uno dei tanti eventi organizzati dall’associazione Cuore di Carta di Bruna Coscia, nel luglio dello stesso anno.
Franco Di Mare e il suo primo libro
Poco prima di incontrare il pubblico, si era presentato in quel pomeriggio afoso con Bruna davanti a una bibita, per parlare un po’ della manifestazione e discutere del contenuto del libro. “Ma l’hai letto?” aveva chiesto prima di tutto, con tono un po’ preoccupato. E lo chiese altre due volte. Forse perché il collega sconosciuto che doveva presentare era un sostituto avvisato solo qualche giorno prima, e dubitava avesse avuto il tempo di leggerlo. Una perplessità svanita invece nell’ammissione candida: “E’ il mio primo libro. Chissà se piacerà, se andrà bene”.
Anche Franco Di Mare può avere paura
Ma come, uno dei più grandi inviati della Rai che ha scritto migliaia di articoli, servizi e collegamenti in diretta televisiva, ha di questi timori? “Beh, la scrittura giornalistica è diversa da quella dello scrittore” aveva specificato con umiltà. Un esercizio, l’umiltà, che dovrebbe essere praticato quanto l’allenamento quotidiano dello jogging da una categoria come quella dei giornalisti che pecca grandemente di narcisismo e protagonismo. Invece, come tante testimonianze ora riportano, Franco Di Mare non si atteggiava nei confronti dei colleghi e in particolar modo del pubblico.
In viaggio sempre con l’ombra della morte accanto
“Perché ho smesso di andare nei teatri di guerra?” aveva detto la sera di fronte a una platea di persone attente a non perdere neanche una parola, una pausa del suo racconto. “Se metti tante palline bianche e una rossa in un vaso, e ogni volta vai a pescarne una, prima o poi quella rossa ti capita. Ecco. Quando giravo a Sarajevo sono capitato varie volte in mezzo alle pallottole e scampato per un pelo al tiro di un cecchino. Non è una questione di fortuna o meno. Se ti capita di dover sfiorare la morte in zone di guerra, prima o poi ti succede di affrontarla davvero. E ho preferito non trovarla, quella pallina rossa”. E poi una pausa, nel silenzio impressionante che era seguito.
Franco Di Mare e i suoi racconti
Aveva quindi ripreso, raccontando quell’altro episodio, atroce e insensato, di come una guerra etnica possa nascere e scoppiare nel più piccolo, all’interno di una coppia sposata da anni, dove lei, croata, viene abbandonata dal marito, serbo, che va a combattere nelle milizie contro i suoi regionali, e quindi lei stessa.
E anche la storia di quella maestra algerina, che insegnava alle sue allieve di non abbassare mai lo sguardo e resistere da donne orgogliose, giacché a lei avevano sgozzato due nipotine perché andavano a scuola senza indossare il velo.
Per Franco Di Mare non era solo lavoro
Tutti episodi dal libro, tutte esperienze vissute da Di Mare che lo avevano più colpito, che non riusciva a dimenticare, che doveva scrivere perché non riusciva più a metabolizzare. Perché se l’inviato di guerra deve usare grandi dosi di cinismo per affrontare l’orrore che deve testimoniare, è anche vero che ne riconosce il trauma una volta rientrato nel tran tran della vita in tempo di pace, perché all’orrore non ci si abitua mai. Ne avviene un rigetto quando la pietà verso gli esseri umani che hanno subito e patito prende il sopravvento su tutti gli altri sentimenti. E bisogna scrivere per fare sapere, far conoscere l’abominio che sono i conflitti e le atrocità che generano, per capire se c’è un modo di emergere dagli abissi che albergano nel lato oscuro dell’uomo. Scrivere è un modo che domandarsi se siamo ancora degni di essere chiamati esseri senzienti e provare a sentire se esistono fili conduttori, briciole di empatia che ci portano verso l’altro. Scrivere è l’unica ancora a cui si aggrappa per ritrovare e ricomporre l’umanità che la guerra annienta.
La sua sensibilità
Una sensibilità con cui Di Mare ha dovuto fare i conti nel racconto a cui tiene di più, quello dell’incontro in un orfanotrofio di Sarajevo con una bambina dagli occhi e capelli scuri che spiccava tra tutti gli altri piccoli, biondi con gli occhi azzurri, perché sorrideva. Una creatura di dieci mesi, presa in braccio per farla riprendere dal cameramen nel servizio per la tivù, che invece gli butta le braccia al collo per farsi coccolare. Un colpo al cuore, e la decisione immediata di portarla in Italia, via da quell’inferno per adottarla.
Al pubblico ne parlava con un sorriso aperto, gli occhi illuminati: sua figlia. Stella Di Mare l’ha chiamata, anche se il nome lo ha fatto conoscere solamente nel suo secondo libro, diventato best seller e addirittura uno sceneggiato televisivo interpretato da Beppe Fiorello, “Non chiedere perché”. Una frase detta alla figlia, che gli chiedeva la ragione di quel gesto, perché l’avesse vista e deciso, lì, all’istante, di diventarne padre.
Non volava una mosca mentre Di Mare raccontava
Un affabulatore di talento, che sapeva tenere appesa alla parola un’intera platea che lo stava a sentire incantata, senza fiatare, avida di ascolto. Che poi, entusiasta, si precipitava a conoscerlo nel firma copie solo per poterci scambiare due parole.
Ed ecco lì, nei piccoli gesti, che si rivela la grandezza del giornalista di razza. Di Mare non si limitava allo scrivere una dedica al lettore il più possibile personalizzata. No: parlava ad ognuno, rispondeva alle domande, apriva discorsi e ascoltava, senza fare fretta ad alcuno, con la schiena curva, il capo leggermente abbassato e gli occhi alzati verso la persona, quasi a chiederne la benevolenza. E ringraziava uno per uno, onorato che avessero scelto di comperare il suo libro.
Una modalità che tanti lettori, nelle sue presentazioni, hanno avuto la fortuna di conoscere di persona.
Viaggiatore del Mondo seguendo la guerra
In giro per il mondo ha documentato per più di vent’anni tutti i conflitti esistenti, entrando nelle case degli italiani con diversi programmi televisivi una volta dismessi i panni dell’inviato.
Era diventato un giornalista famoso, invidiato e anche criticato. Di lui resta e va ricordato il bene che ha fatto, la generosità che tanti hanno testimoniato e la bellezza e competenza nel suo lavoro che ha affascinato il grande pubblico e ha trasmesso a tanti giovani colleghi. E per questo va solo ringraziato.
Ciao Franco Di Mare e grazie per la tua testimonianza
Franco Di Mare è mancato il 17 maggio scorso, due settimane dopo aver denunciato pubblicamente su un canale televisivo, davanti a Fabio Fazio, di aver contratto un tumore legato molto probabilmente all’esposizione all’uranio delle armi in tanti anni di inviato di guerra. Il male, aveva detto, non gli concedeva più molto tempo. Aveva anche denunciato il fatto che la Rai gli avesse negato una risposta e un incontro. Poi la direzione della Rai ha fatto sapere che si sarebbe fatta carico della richiesta e ha rivendicato la scomparsa di Franco Di Mare come di un protagonista dell’informazione televisiva. Al giornalista sono stati dedicati servizi e ricordi. Ma ormai Franco Di Mare aveva concluso il suo tragitto di uomo. Erano in tanti a Roma il 27 maggio nella chiesa di Piazza del Popolo a salutare un giornalista popolare e amato.