La tragedia del Vajont, a sessant’anni di distanza, rappresenta ancora una ferita profonda, mai rimarginata. Il ricordo è ancora vivo nei superstiti, nei figli e nipoti di chi ha perso la vita in quel tragico 9 ottobre del 1963; nei soccorritori, a quel tempo solo dei ragazzi che i giorni che seguirono resero uomini troppo in fretta. Tanti gli eventi e le cerimonie che si sono tenute fin qui e che si terranno ancora nei prossimi mesi per questa triste ricorrenza. Servono per non dimenticare quanto l’uomo possa rendersi responsabile della morte di tanta gente, per tenere alta l’attenzione, affinché non ci si trovi a ripercorrere le stesse infauste strade. Ma c’è anche chi, da volontario e per iniziativa della Fondazione Vajont, nata ormai vent’anni fa, si dedica a tenere viva la memoria durante tutto l’anno.
Sono gli “Informatori della Memoria” e per capire cosa voglia dire tutto questo abbiamo intervistato per www.enordest.it uno di loro. Si chiama Lara Bortoluzzi, abita in Alpago, di professione architetto.
Chi sono gli Informatori della Memoria?
“Gli Informatori della Memoria sono dei volontari preparati con un corso di formazione dalla Fondazione Vajont. Il nostro compito è spiegare in maniera tecnica, oggettiva, sulla base della documentazione storica del processo la storia del Vajont al fine di farla comprendere ed evitare che altre cose simili accadano. Il nostro impegno è prevalentemente connesso alle visite guidate che si tengono al coronamento della diga del Vajont nel periodo che va da Pasqua ai primi di novembre”.
Cosa l’ha portata a diventare Informatrice della Memoria?
“Prima di tutto l’essere una “nipote del Vajont”: mio nonno era un operaio dell’impresa Monti di Auronzo. Morì quella sera proprio nell’area di servizio del cantiere, appena sopra la diga e, come i suoi colleghi, non venne mai trovato. Il Vajont è sempre stata una storia presente in famiglia attraverso i racconti di mia nonna e di mia mamma, ed al Vajont alla lapide ricordo del nonno che c’è all’inizio del coronamento andavo sempre con loro sin da piccolissima.
Poi la consapevolezza del fatto che il Vajont fa parte dell’identità del nostro territorio: ne ha cambiato e condizionato la storia. L’economia industriale della provincia di Belluno, ma anche di molte zone friulane, è nata con le aziende costruite con i fondi della ricostruzione nel dopo Vajont. Economia che in una zona di montagna difficile da vivere è importantissima. Nelle nostre terre lavoro significa mantenere gente nel territorio e quindi mantenere un minimo di servizi e un minimo di manutenzione del territorio. Purtroppo di agricoltura e solo turismo non si vive”.
Ma cosa significa proteggere la memoria?
“Per me è un modo per mantenere viva la memoria di persone che hanno vissuto il Vajont sulla loro pelle, le tantissime vittime ma anche sopravvissuti, soccorritori e chi ha lavorato per far ripartire le comunità. Un modo anche per ringraziarle per il loro impegno: non è stato semplice per nessuno di loro. Ed infine l’aver studiato all’università pianificazione territoriale e aver maturato la consapevolezza che possiamo fare opere strutturalmente importanti nel territorio. Ma bisogna valutarne bene le conseguenze e i costi/benefici che portano, avvalendosi degli strumenti scientifici a nostra disposizione. Essere consapevoli che a volte la scelta migliore è quella di ridimensionare gli interventi o non fare proprio. Spero attraverso il racconto della storia del Vajont, degli errori e delle superficialità commesse, di quello che ha cambiato alcune discipline, di poter trasmettere in modo semplice anche questa consapevolezza”.
Come è stato vivere questo sessantennale della tragedia del Vajont da parte sua?
“Doppiamente emozionante. L’ho vissuto sia come familiare di una vittima, sia come aiutante della Fondazione Vajont nella preparazione dei due eventi principali: l’arrivo del Presidente della Repubblica e il raduno dei soccorritori. Ma anche il Requiem di Mozart, cantato nella Chiesa di Longarone, è stato un evento di straordinaria bellezza e commozione. Ciò che la gente ha visto e vissuto è la punta di un iceberg di un grandissimo lavoro che per alcune persone è durato mesi, intensificandosi a partire da inizio settembre quando anche noi formatori siamo stati chiamati dagli organizzatori a dare una mano”.
Che senso ha avuto la presenza del Presidente della Repubblica?
“Di questo anniversario sicuramente gli eventi più emozionati per me sono stati l’incontro con il Presidente della Repubblica al Cimitero delle Vittime del Vajont a Fortogna e la giornata precedente con i soccorritori e il concerto con il Requiem di Mozart. L’arrivo del Presidente a Fortogna è stato forse un po’ meno formale e silenzioso rispetto all’evento in Diga al Vajont, ma comunque molto solenne e toccante per la presenza anche dei bambini: 487, come lo sono stati i bambini sotto i 15 anni la cui vita si spezzò il 9 ottobre del ‘63. Poi, dalla diga, Mattarella ha promesso: i documenti del processo penale tenutosi all’Aquila rimarranno a Belluno, come chiesto dal presidente della Provincia e già sindaco di Longarone, Roberto Padrin.
La memoria ricordata dal Presidente
Una cosa per noi davvero importante. Il giorno prima, invece, c’è stato l’incontro con i soccorritori: erano in oltre 300, età media 80 anni, ma al tempo del disastro molti di loro erano giovani, appena ventenni o neanche. Ho avuto l’opportunità di stringere le loro mani. Le stesse che hanno scavato nel fango e tra i detriti nel tentativo di salvare o trovare qualcuno, ascoltare le loro testimonianze, conoscerli, è stato emozionante. Infine il Requiem che mi ha riempito il cuore di emozioni uniche. Poi la veglia della sera a Longarone con la fiaccolata dal campanile di Pirago alla chiesa di Longarone e la lettura dei 1910 nomi delle vittime del disastro.
Quindi il silenzio, interrotto solo alle 22.39 dai rintocchi della campana della chiesa vecchia di Longarone, sopravvissuta al disastro. Di solito ci si riunisce nell’anfiteatro sopra la chiesa da dove sullo sfondo si vede la Diga del Vajont illuminata. Attimi in cui non puoi che pensare a cosa vissero le nostre terre e la nostra gente in quell’esatto momento anni prima. Questo è il momento più intimo e meno formale della giornata. Vi partecipo sempre in punta dei piedi, perché non abitando a Longarone e non avendo mai vissuto lì, mi sento quasi un po’ un’intrusa”.
Qual è stato il momento più significativo per lei in questi anni di attività?
“La mia prima visita guidata ufficiale fu l’8 luglio 2018. Sono stati 5 anni molto intensi ed è difficile scegliere un momento significativo, perché ce ne sono stati davvero tantissimi. Quest’anno sicuramente i momenti più emozionati sono stati tre. L’incontro con una splendida signora di Longarone sopravvissuta per pochi metri al disastro. È stata una visita guidata particolare, perché ho saputo solo alla fine chi fosse. Mi sono sentita onorata, perché le è piaciuto come ho raccontato la storia, e raccontare il disastro del Vajont in meno di 50 minuti e in modo semplice è davvero impegnativo.
Onorata, perché a fine visita guidata ha raccontato la sua storia ai visitatori e so che per molti sopravvissuti non è semplice: significa raccontare un dolore, e un qualche cosa di molto intimo. Il momento in cui un gruppetto di bambini che partecipavano all’evento di Longarone di fine maggio, in cui si sono riuniti 24 cori di bambini provenienti da tutta Italia, sono saliti a visitare la diga del Vajont e si sono messi spontaneamente a cantare Tutto è in equilibrio.
Composta nel 50° anniversario e dedicata ai bambini vittime del Vajont. E poi un fine visita guidata, dove dialogando con i visitatori ci si è soffermati sull’importanza del ruolo dei soccorritori in tutti i disastri. Si è scoperto che nel gruppo c’erano sia delle persone sfollate dai territori alluvionati in Emilia-Romagna, sia delle persone che erano andate a dare una mano. A questo punto si sono abbracciati e il momento è stato davvero toccante e commovente”.
Consiglierebbe ai giovani questo impegno?
“Si, è importantissimo perorare la Memoria del disastro, e ancora di più lo sarà se a farlo potranno essere giovani, le nuove generazioni. Non è un impegno semplice, perché si lavora in un luogo rumoroso, con ogni situazione meteo e purtroppo capitano anche dei casi di maleducazione tra i visitatori, ma neanche poi tanto complesso. Le soddisfazioni che si ottengono gratificano. Vedere tanta gente interessata, migliaia di persone che apprezzano il tuo impegno, fermarsi ad ascoltare storie di vita dei visitatori è bellissimo. E’ un piccolo sacrificio che vale, certamente, provare”.
Ulteriori informazioni sul 60esimo e sulla figura dell’Informatore della Memoria si possono trovare sul sito ufficiale della Fondazione Vajont (www.fondazionevajont.org).