Era nell’ordine delle cose. Già quasi vent’anni fa, per le Edizioni del Leone di cui era direttore, Paolo Ruffilli aveva pubblicato una formidabile raccolta di Tomaž Šalamun, Quattro domande alla malinconia. Opera inquietante, con l’ombra della guerra nel cuore dell’Europa balcanica; opera di denuncia sarcastica e sottile, maestosa e a suo modo orrifica. Eppure Ruffilli era riuscito a cogliere, nel degrado della guerra, la testimonianza della vita. Forma di resistenza estrema, quella del poeta. Imparare a guardare in faccia il mondo per quel che è e, in quel quadro di dolore, intuire il riflesso della grazia.
Da sempre, l’impegno di Paolo Ruffilli è quello di una parola in azione, una parola rizomatica da cui possa dipanarsi il confronto. La sua dimensione, quella in cui mi è stato maestro (prima ancora che la bellezza intrinseca, sottile, musicale dei versi) è quella civile. L’essere umano, mi ha insegnato Paolo, non si annienta del tutto, finché permane quel bisbiglio di labbra capace di andare lontano, finché permane il dubbio. «Uno scopo dello scrivere – commentò in una conversazione lontana – è creare dubbi su ciò che consideriamo ovvio». In lui, nato a Rieti nel 1949, ma originario di Forlì, la funzione interlocutoria, d’indagine sul mondo, si è mantenuta salda nel tempo, opera dopo opera. L’indagine sulla sofferenza e sul male, perché questo appare ogni giorno davanti ai nostri occhi; la sottile trama amorosa; la morte e la dimensione del sacro; la guerra, perché ci siamo dolorosamente immersi.
Ruffilli poeta della guerra
Ancora, anomala nel panorama poetico italiano, è l’attenzione che il poeta, il curatore Ruffilli porta ai versi degli altri, con una generosità curiosa che rincuora, tra tanti deliri solipsistici: da qui i progetti di collaborazione, le bellissime traduzioni di testi che, senza il suo lavoro, non sarebbero arrivati al grande pubblico.
Anche questa antologia, Il sapore della guerra, appena edita da Nino Aragno Editore, porta la sua firma: trenta poeti da tutto il mondo, scelti, curati e tradotti da Ruffilli, a parlare di un concetto che dispera e sconvolge le vite di tutti. Testi asciutti, privi di retorica, tragici, con l’intento preciso di smuovere le coscienze: «Il progetto Il sapore della guerra – scrive nell’Introduzione Ruffilli – nasce più di due anni fa, dalla convinzione che l’unica opzione per il futuro degli uomini sia la pace. Utopia, certo, vista la realtà opposta delle molte guerre del passato remoto e recente in zone vicine e lontane. Ma la poesia deve la sua potenza al suo essere controcorrente».
Ruffilli e la chiave di lettura
È questa la chiave di lettura giusta, rammenta Paolo, perché la pace non accade da sé. Bisogna costruirla, anche con le parole più urticanti: «Cercavo poesie che abbaiassero e mordessero come cani non solo arrabbiati, ma anche in apparente fulminante tranquillità» ribadisce nel suo commento. L’apparente, fulminante tranquillità è quella della nostra accettazione, persino della nostra indifferenza nei confronti dell’odio, quello a cui la grande Wislawa Szymborska ha dedicato versi incandescenti: Religione o non religione / purché ci si inginocchi per il via. / Patria o no / purché si scatti alla partenza. / Anche la giustizia va bene all’inizio. / Poi corre tutto solo. / L’odio. L’odio. / Una smorfia di estasi amorosa / gli deforma il viso.
Ruffilli e l’indifferenza
A questa indifferenza, per cui persino espressioni comuni come un “Ok” hanno un’origine bellica (“0 Killed”, zero uccisi, utilizzata durante conflitti armati), i poeti raccolti ne Il sapore della guerra oppongono descrizioni scabre ed oggettive, fuggevoli e consci pensieri, riflessioni fondanti, con tutta la potenza poetica di cui parla Paolo.
Il turco Ataol Behramoglu, vissuto in esilio fino al 1989, rammenta con logica inoppugnabile che I bambini non hanno nazioni: Il modo in cui tengono la testa è lo stesso / Guardano con la stessa curiosità negli occhi / Quando piangono, il tono della voce è lo stesso … Deciso, senza mezzi termini, l’appello alla rivolta dello svedese Kjell Espmark: Si diceva che la morte è bella quando / da coraggioso cadi in prima linea. / Non c’è proprio niente di bello / nel colpo sferrato da dietro sopra / la scapola o diretto al basso ventre / di chi è già caduto in ginocchio. / Per il tempo tanto o poco che ho / vissuto, una cosa posso dire: cerco / ancora quello che ha avuto il coraggio / di parlare della bella morte. Giro con / un coltello in tasca per tagliargli la lingua.
Le immagini
Ci sono immagini strazianti nell’antologia, come quelle evocate nella prosa poetica di Joumana Haddad, libanese, scrittrice, giornalista ed attivista per i diritti civili: Ho visto una madre ballare intorno ai cadaveri dei suoi tre figli. I soldati la picchiavano con le fruste. La prendevano a calci. La stavano spingendo fuori da casa sua. Ma lei non glielo avrebbe permesso (…) Ha continuato a cantare quelle ninne nanne anche dopo che i soldati hanno sparato pure a lei …
C’è anche la voce di Paolo, tra le tante, con il ricordo di Ettore tornato dalla guerra. Particolarmente significativa la chiusa della lirica: Oggi, l’impressione è quella della / carne dolorante resuscitata in qualche / modo dalla mente ma assediata / e messa in scacco dal suo sangue. Osservazione amara, certo, ma anche – di fronte all’ignavia, alla noncuranza del vivere quotidiano – precisa assunzione di responsabilità. Nel suo “non temere le immagini del mondo”, come in Šalamun, c’è anche il “non temere i miracoli” di cui scrive l’autore di Zagabria. Il miracolo della poesia sta nel prendere posizione, il suo impatto, per quanto utopico, è come quel coltello in tasca. Anzi, di più.