Bruno De Lorenzi, ha 85 anni e vive a Vajont, comune di Maniago, Pordenone, frazione di case costruite dopo la grande tragedia per ospitare i sopravvissuti. Lui è uno di loro, con sua moglie Elsa. Solo per ricordare il dramma di 60 anni fa. Alle 22,39 del 9 ottobre 1963, crolla la diga del Vajont costruita dalla società veneta Sade per sfruttare l’energia elettrica tra Friuli e Veneto. È alta 244 metri, la più grande d’Europa. Quella notte l’invaso artificiale viene ostruito da una enorme frana improvvisa di 270 milioni di metri cubi di sassi e fango che viaggia a 30 metri al secondo, ovvero 110 chilometri all’ora. Il boato è micidiale. La diga resta in piedi, ma la massa d’acqua e il vuoto d’aria derivato, causano la morte immediata di 1910 persone, tra cui 487 bambini. I corpi dispersi saranno circa 1300. Oggi solo una piccola croce li ricorda tutti del cimitero monumentale a Fortogna, vicino a Longarone. Senza dimenticare i 10 operai morti sul lavoro durante la costruzione della diga. I primi a crepare per il terribile vuoto d’aria provocato, furono 158 abitanti dei paesini di Erto e Casso in Friuli, circa un terzo della popolazione residente. Poi la falce nera disintegrò Longarone, Codissago e Castellavazzo. Alcuni corpi, ma molti giorni dopo, furono recuperati a Jesolo, a 100 chilometri di distanza, trasportati dal fiume Piave. Fu la più grave disgrazia ambientale europea. Solo nel 2000, dopo innumerevoli processi, ovvero 37 anni, furono obbligati a risarcire i danni, con 900 miliardi di lire, Stato, Enel e Montedison. La Sade non esisteva più, fu nazionalizzata nel 1962.
Il ricordo di Bruno
Ma torniamo al ricordo di Bruno De Lorenzi, all’epoca residente a Casso.
“Avevo 25 anni e mi ero sposato con Elsa da pochi mesi. Era incinta di Carlo che nacque proprio a ottobre di 60 anni fa, il primo a nascere dopo la tragedia. Fu proprio mia moglie prossima al parto, a rifiutare un invito a cena da amici, a Longarone, quella notte. Era mercoledì e la tv dava la finale di coppa campioni con il Real Madrid. Fu la nostra salvezza. I nostri amici morirono tutti. Noi eravamo a letto. Sentiamo un enorme e assordante boato. Oddio la diga! Guardo dal balcone, ma era impossibile vedere, un vento spaventoso e la polvere mista all’acqua, ci impediva ogni movimento. La nostra salvezza fu la palestra della scuola, appena costruita davanti a noi, che ci fece da paravento. Restiamo immobili e paralizzati. C’era acqua dappertutto e tetti scoperchiati. Ho ancora la memoria viva e visiva di enormi pini infilzati con la punta nelle finestre della scuola elementare. Sembravano stuzzicadenti, ma pesavano tonnellate. Solo al primo mattino, dopo ore immobilizzati dal terrore, arrivano gli elicotteri americani, dalla vicina base di Aviano e ci portano via, all’ospedale di Belluno, dove pochi giorni nasce mio figlio”.
Bruno, ma avevate dei presentimenti, delle paure?
“Io allora, come tecnico, lavoravo per la società Farsura che era addetta proprio alle nuove dighe. Il pomeriggio stesso, poche ore prima avevo attraversato la diga del Vajont. Avevamo i terreni agricoli e le mucche, proprio sul monte Toc. Sentivamo strani movimenti, ma i tecnici della Sade ci rassicuravano. Da sempre il monte Toc, lo dice il nome stesso, produceva rumorosi detriti e cadute di sassi. Nulla di preoccupante, ci dicevano. Noi facevamo il fieno, anche se alcuni malumori erano sorti con la costruzione della diga ed era nato proprio un consorzio di protesta. (Nel 1959 era nato il Consorzio per la difesa della valle ertana, ndr). Il sentimento generale era avere fiducia nelle assicurazioni dei tecnici, dei professori di Padova, nonostante gli espropri e i disagi”.
Ma il 7 novembre 1960 ci fu una frana che riempì il bacino e lesionò alcune case di Erto e Casso?
“E chi leggeva i giornali? Noi avevamo fiducia nei nostri amministratori e soprattutto degli anziani del paese”.
Ma il 21 febbraio del 1961, il giornale “L’Unità” a firma dell’ex partigiana Tina Merlin, pubblica un servizio dal titolo: La popolazione vivamente allarmata! E poi: una massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto e di Casso. La giornalista venne addirittura denunciata dalla Sade che stava per vendere tutto alla società pubblica Enel!
“Ripeto. E chi leggeva i giornali o L’Unità? Per noi erano polemiche politiche tra il PCI per mettere in imbarazzo la Dc. La Sade era un impero e dava lavoro a tanti”.
Bruno e le informazioni non seguite
Quattro giorni dopo la tragedia, il Gazzettino, scrive: ora i soccorsi e l’assistenza. Basta speculazioni politiche di Pci e PSI…
Anche le firme prestigiose di Indro Montanelli e Dino Buzzati, intervengono, parlando di pura fatalità.
E pensare che l’8 ottobre 1963, il giorno prima del disastro, il comune di Erto su sollecitazione della società Sade, avverte la popolazione ed invita ad allontanarsi dalle zone pericolose. In particolare si mettono a disposizione mezzi e camion per sgomberare l’area. “Chi non ubbidisce ai presenti consigli – si pubblica in un manifesto – mette a repentaglio la propria vita. Enel-Sade e autorità tutte non si ritengono responsabili per eventuali incidenti che possono accadere a coloro che, sconsideratamente, si avventurano oltre i limiti descritti”.
Sconsideratamente! Mai un avverbio, fu più criminale.