La voce narrante di Edoardo Pittalis e la musica e il canto di Gualtiero Bertelli con Cimo Nogarin hanno emozionato il pubblico del Festival della politica all’M9 di Mestre nella serata dedicata a far memoria del Vajont di poco in anticipo sulla data dell’anniversario, il sessantesimo.
Il narratore ha iniziato dalla notte di mercoledì 9 ottobre 1963. Erano le 21,30 quando l’apocalisse è scoppiata. Sono stati tre minuti di tregenda innescata dal monte Toc che, precipitando nel lago artificiale, ha provocato l’onda gigante che ha polverizzato Longarone e le sue frazioni, divorando la vita che il paese conteneva: duemila persone uccise in centottanta secondi.
In 3 minuti il Vajont diventa una tragedia
Da quel buio, da quel Nulla in cui “acqua e silenzio hanno fatto la strage”, Pittalis ha poi scavato nel tempo, da superbo cronista qual è, sostenuto da pietà e da passione civile: con lui – e con le canzoni popolari che hanno ritmato la rievocazione, – abbiamo ripercorso gli anni in cui la verità sulle cause dell’ecatombe e la giustizia negata alle vittime innocenti hanno sofferto la retorica del “disastro naturale”, del pensiero dominante imperniato sulla “fatalità” contro la “responsabilità” umana e politica.
Un delitto senza colpevoli? La colpa fu acclarata. Anni e processi, sempre tanti e sempre più lontano da “quella notte”, hanno fatto giustizia. Finalmente.
Il pubblico è stato partecipe e reattivo, qualcuno ha pianto. Nelle locandine la cantata era presentata come Spettacolo. È stata invece una ripresa della memoria collettiva, meditata e sofferta. Tutti, nel chiostro di M9 avevano ricordi.
Quei Vajont senza risposta
E c’è ancora una lista d’attesa: riguarda la verità di tanti “vajonts” (così Marco Paolini) che Pittalis ha puntualmente indicato, e sono nel nostro presente. E infatti questa cantata laica, traboccante di emotività, si è conclusa con l’amara considerazione del narratore: “l’Italia sembra affetta da Alzheimer: dimentica spesso la propria storia”.
Una storia in cui l’acqua, così tragica a Longarone, nelle sue varie manifestazioni e relazioni con l’umanità è vita fluida, è ricchezza del mondo e bene pubblico da usare con rispetto, direi anzi con amore. Di “governo dell’acqua” ha parlato quello stesso pomeriggio al Festival della politica l’idrologo veneziano Andrea Rinaldo, da pochi giorni insignito del Nobel dell’Acqua a Stoccolma.
Il mio personale Vajont
Anch’io ho ritrovato i ricordi dolorosi di quei giorni e mi portano la presenza di colleghi che videro l’orrore indicibile e lo testimoniarono. C’è Armando Gervasoni e la sua sofferenza morale per la tragedia di cui lui aveva percepito la minaccia. Ne risento la voce in queste righe tratte dal suo romanzo Le ombre di Erto e Casso (1967). Sulla desolata “spianata deserta” che fu Longarone, Armando ricorda la mattina del giovedì 10 ottobre quando, vagando sotto choc nel deserto di fango e di corpi straziati “avevo raccolto una pantofolina rosa, piccola, da neonato forse. Subito ho pensato a mia figlia Rossana di due mesi che per fortuna era a letto con sua madre, come svegliato da un incubo. Ci sarà quel bambino o bambina nel cimitero di Fortogna? O sarà scomparso del tutto, polverizzato, distrutto?”
La voce che doveva essere ascoltata
E poi ecco Tina Merlin, l’intrepida giornalista dell’Unità che aveva denunciato a lungo, profeticamente, l’instabilità della montagna e il pericolo di frana sopra la diga: voce inascoltata e poi bersagliata dalle “autorità”. E poi l’amico Fiorello Zangrando inviato dal Gazzettino a L’Aquila dove per mesi seguì, soffrendo come mai gli era accaduto nell’esercizio del “mestiere”, il lungo processo che vide coinvolti la Sade, originaria proprietà della diga, lo Stato italiano e la Montedison. Una pagina di politica italiana raccontata di giorno in giorno mentre avveniva.
Erano tre valorosi cronisti che hanno testimoniato l’atrocità di una notte mai dimenticata, un olocausto. Perché quei giornalisti raccontarono e insieme piansero mentre battevano a ritmo funebre parole di storia sulle loro Olivetti portatili.
Dino Buzzati e Vajont
La scena orrenda del paesaggio straziato, diventato il sudario di un’intera popolazione, paralizza la voce: nemmeno uno scrittore come Dino Buzzati troverà le parole che il giorno dopo gli “restano dentro col loro peso crudele”. Lui tace, inorridito, e i fantasmi del Vajont cominciano a destarglisi nel profondo: erano gente della sua terra natale, che parlava come lui e molti avevano “facce di famiglia”.
Vulnerato nell’anima, il famoso autore parlerà – cioè scriverà sul Corriere della sera- con la voce che assomigliava a quella di una vittima, come mai gli era capitato prima nella sua vita di inviato speciale.
Sembrava un giorno di quiete
(poesia)
Sembrava un giorno di quiete –
senza minacce né in cielo né in terra –
finché al tramonto
un rosso casuale
un colore diffuso, che sembrava
disperdersi oltre la città, verso occidente –
Ma quando la terra cominciò a vibrare
e le cose svanirono in grande fragore
e le creature umane tutte si rintanarono,
allora fu il terrore che ci fece capire,
come capirono quelli che videro
la Dissoluzione, il Papavero nella nube.
Emily Dickinson (1830-1886)
Sempre partecipe, mai catastrofiche ma solo realiste le tue parole. Io allora vivevo ancora nella mia lontana Basilea – ma mi ricordo, sì che mi ricordo di questa enorme disgrazia, e non potrei leggere parole migliori delle tue …
Ad onore di quei 1910 morti, e ad infamia di coloro che per profitto li causarono, riporto un articolo del Corrirere Veneto del 18/09/2023,di Michela Nicolussi Moro…. (sperando che non venga censurato)
Vajont, le carte segrete scoperte da Ruzzante: «Tutti sapevano, operai messi a tacere per 500 lire e tecnico licenziato»
di Michela Nicolussi Moro
L’ex parlamentare e consigliere del Pd ha scritto il libro «L’acqua non ha memoria»: «I pescatori recuperarono in mare pezzi di quei corpi straziati»
Vajont, le carte segrete scoperte da Ruzzante: «Tutti sapevano, operai messi a tacere per 500 lire e tecnico licenziato»
Piero Ruzzante, lei è uno storico con una lunga carriera di politico, parlamentare e consigliere regionale alle spalle. Di libri, approfondimenti, trasmissioni e spettacoli teatrali sulla tragedia del Vajont, di cui il 9 ottobre 2023 si celebrerà il sessantesimo anniversario, ne sono stati prodotti tanti.
Cos’ha di diverso «L’acqua non ha memoria» (Utet editore), che esce il 19 settembre e che lei ha scritto con Antonio Martini e presentato in anteprima a Pordenonelegge?
«Il libro rivela notizie finora rimaste segrete, perché costruito su 61 scatoloni di carte processuali, interrogatori dei carabinieri e della magistratura da me raccolti e studiati per quattro anni».
Vajont, le carte segrete scoperte da Ruzzante: «Tutti sapevano, operai messi a tacere per 500 lire e tecnico licenziato»
Dove ha trovato questi documenti inediti?
«Per caso, durante una visita all’Ateneo Veneto di Venezia, al quale li aveva regalati l’avvocato Alessandro Brass, padre del regista Tinto e all’epoca legale della Sade, l’ente gestore della diga su cui poi è crollata la frana. Si tratta della documentazione esibita dalla difesa al processo che seguì il disastro (l’inchiesta fu aperta tre giorni dopo il crollo, ndr), responsabile di 1910 vittime. Alla morte di Brass è stato l’avvocato Mario Vianello di Venezia ad aiutarmi a riportare alla luce la verità. Il secondo archivio mai consultato da nessuno e al quale ho attinto appartiene all’avvocato Giorgio Tosi di Padova, che ha assistito le parti civili, cioè i sopravvissuti».
E cosa è emerso?
«Sono venute fuori notizie clamorose sul prima e sul dopo disastro, che dimostrano come i rapporti di dipendenza tra gli scienziati e il potere siano rimasti inalterati, nonostante tutto. Tutti sapevano, gli operai del cantiere fecero perfino sciopero, ma vennero messi a tacere con un’indennità di 500 lire. La gente di Longarone, di Casso ed Erto continuavano a dire che sarebbe venuto giù tutto, i movimenti della roccia erano aumentati nell’ultima settimana. E il 4 settembre, quando il territorio fu scosso da un forte terremoto, un operaio smise di andare al lavoro, dicendo: la vita è più importante delle quattro lire che prendo».
Eppure Sade ha tirato dritto.
«Sì, al punto che il 9 ottobre 1963, giorno della tragedia, i tecnici di Sade furono convocati sulla diga, per gli ultimi controlli. E in nottata un carabiniere, Rinaldo Aste, venne buttato giù dal letto e costretto a organizzare un posto di blocco sulla strada verso Erto. Gli dissero: devi andare là perché la Sade teme che ci sia un’ondatina d’acqua. Sapevano che la frana del monte Toc stava per crollare. Aste obbedì, mentre scappava è rimasto colpito alla schiena da una cascata d’acqua e fango ma si è salvato aggrappandosi alla roccia. In quel momento, girandosi, vide la grande ondata travolgere tutto, anche Longarone, dove la moglie e i figli moriranno».
Uno degli episodi più clamorosi che lei racconta riguarda Lorenzo Rizzato, negli anni Sessanta tecnico di Ingegneria idraulica all’Università di Padova.
«Sì, lavorava con il professor Augusto Ghetti, che nel 1961 aveva condotto un esperimento a Nove di Vittorio Veneto (Treviso), sopra il lago Morto, per valutare con un modellino gli effetti di un’eventuale frana sulla diga del Vajont. Si rende conto che l’invaso non avrebbe retto e che Longarone era in pericolo. Ma nessuno disse niente e allora Rizzato, dopo la tragedia, consegnò copia dei documenti relativi alla simulazione a Franco Busetto, deputato del Pci, che presentò un’interrogazione parlamentare. Il risultato fu che il 14 ottobre 1963 il tecnico allora 32enne venne arrestato e tenuto in carcere una settimana, prima di essere assolto per insussistenza di prove. Ma poiché la Sade finanziava Ingegneria Idraulica con 2,2 milioni di lire, Rizzato fu prima sospeso e trasferito dall’Ateneo, che per quattro anni gli ridusse lo stipendio di un terzo, e poi licenziato».
Da qui il suo appello all’Università di Padova?
«Sì, dopo sessant’anni e anche se ormai lui non c’è più, il suo nome va riabilitato. Lorenzo Rizzato ha avuto un coraggio da leone».
Lei la sua scommessa con questo libro l’ha vinta?
«Sì, era appunto di trovare verità nascoste e di riportare in vita le voci del popolo del Vajont. Ho recuperato mille voci dei sopravvissuti, il loro dolore e, per molti, il cruccio di non aver mai trovato i corpi dei familiari rimasti uccisi. E nemmeno dei resti, degli oggetti che potessero arginare una sofferenza mai sepolta. La frana del monte Toc ha ucciso 1910 persone: 1464 sono sepolte a Fortogna, ma di 181 non si è mai trovato il corpo. E poi ci sono 761 salme non identificate».
Lei scrive che i pescatori recuperarono in mare pezzi di quei corpi straziati.
«Sì, ma ho voluto raccontare anche le storie di chi si è miracolosamente salvato. Come la signora Maria di Pirago, dove è rimasto in piedi solo il campanile. Il giorno della tragedia, alle 18, il marito Giobatta pescava sul lago del Vajont e, rendendosi conto del rischio, la mandò a dormire dai parenti, a Forno di Zoldo, che lei raggiunse a piedi. Maria così sopravvisse ma il figlio no, perché non volle credere alle parole del padre».
PS: E chissà perchè,…..avendo letto tutto ciò,mi viene in mente subito la tragedia del PONTE MORANDI!!! (se soltanto ci fossero stati GIORNALISTI CORAGGIOSI…..)
Tutto bello, da ” fazzoletto”