La cronaca, nella sua nudità, può commuovere. Non dico il resoconto di tragedie del mare, di femminicidi e simili, ma la cronaca minuta, circoscritta nel tempo e nella geografia. Penso a quello che è accaduto nei giorni scorsi quando un giornalista del Corriere del Veneto, Gianni Favero, ha raccontato di un misterioso trombettista che a Pieve di Soligo esce di notte e suona brani del Silenzio militare d’ordinanza cambiando ogni volta postazione per non rivelare la sua identità ai concittadini.
Quella musica che vaga nel buio, inattesa e toccante, è come quella che inteneriva i cuori, e ha segnato a suo tempo anche l’Anonimo e i suoi coetanei “chiamati alle armi”: tutti coscritti arrivati da lontano, eravamo un popolo in transito dalla giovinezza alla maturità. E ci hanno raccolti nella grande caserma di viale Druso a Bolzano, dove formavamo una inconsapevole e piccola Italia in divisa grigioverde.
Ma torniamo alla cronaca
La sorpresa degli abitanti di Pieve, e la loro curiosità per quell’inedito Buona notte di derivazione militaresca (oltre che cerimoniale) sono reazioni comprensibili e addirittura condivisibili, specialmente per chi la ascoltava sdraiato sulla branda, a vent’anni, fuori dal paese o dal quartiere, molti per la prima volta. Il Silenzio era allora, come oggi, un appello senza parole ma carico di una sua intima urgenza.
E però c’è dell’altro: a cominciare dal sindaco, Stefano Soldan, le persone intervistate non hanno insistito in modo particolare sull’identità segreta del suonatore: rimanga pure l’ignoto trombettista di mezza estate, ma continui a regalare la sua musica: anche se di poche note, ma impeccabili nell’esecuzione, sono capaci di favorire l’apertura della porta del sonno e dei sogni.
Dunque, viene da pensare che il fascino del mistero, nell’epoca delle estreme esternazioni via social, appartiene ancora a molti, così come l’annuncio del silenzio, della sospensione, dell’abbandono in un mondo febbrile dominato dal rumore, anzi dei rumori che ci avvolgono nel loro velenoso amplesso.
Si percepisce, nell’episodio di Pieve, un desiderio di fatti sorprendenti, di musica come bellezza donata, di mistero, in fondo: tutti doni che nel caso descritto arrivavano da uno sconosciuto nascosto fra noi, dalla solitudine di un’anima inquieta.
Ah, queste parole
Non so voi, ma io comincio a non sopportare più il martellante uso di frasi fatte, di parole che hanno fatto la ruggine, di formulette che fioriscono a ripetizione sulla bocca di lorsignori i politici in carriera, soprattutto loro, ma non sono gli unici con quella verbosità. In questo periodo di ascolti e di letture, c’è una frase che torna in continuazione e ha cominciato a pesare. Si tratta di tre parole: “In questo Paese”.
Lo senti ripetere in ogni momento, il tono di voce è neutro, anzi addirittura distaccato come se “questo Paese” non appartenesse a chi parla, come se non avesse un nome proprio. Qualcuno, bontà sua, aggiunge ogni tanto l’aggettivo “nostro”.
Ma il nome Italia non c’è, e questo particolare lascia spazio alla curiosità: perché non dire “in Italia” oppure “in questa nostra Italia”? Hanno paura di usarla, come si è fatto a lungo per un’altra parola tabù, cioè patria? Non sono due parole esclusive di qualche partito o governo: sono nostre, di tutti, ci appartengono come noi apparteniamo a loro. E senza un filo di retorica.
Chi ha tempo…
Voce di uno che parla al telefonino e dice: “Mezz’ora sono qui”, stizzito. A parte la sgrammaticatura, che evidenzia uno scarso possesso della nostra lingua, l’espressione richiama al nostro comune “uso” del tempo, che spesso teniamo in noi come un cagnolino al guinzaglio, dosandolo a piacere o per necessità. Questo “tenere il tempo” ci distingue gli uni dagli altri: ci sono quelli che lo spendono senza risparmio, quasi temessero di non consumarne abbastanza; e chi, al contrario, lo risparmia vivendo con parsimonia.
Ore, mezz’ore, minuti… Così si formano gli anni, e noi viviamo su uno strato di tempo accumulato, e chiamiamo quel cumulo il passato. Si capisce, allora, perché sia stato scritto che “nel presente dell’Europa c’è una prepotente presenza del passato”.
A sua volta, il saggio paragona il tempo passato all’orizzonte: “ visibile e illusorio” dice, “perché la linea del tempo e dell’orizzonte è ma anche non è, e scivola sempre via…”
Citazione d’autore
“La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo” scriveva Kundera nel suo libro La lentezza. Mi chiedo, però, se questa “estasi” non ci stia in qualche modo erodendo culturalmente… Personalmente, non essendo un sociologo, questa “erosione” non la saprei valutare nella sua complessità.
Gian Luigi Beccaria, In contrattempo, Un elogio della lentezza, Einaudi 2022
Bravo , Ivo ! Il tuo commento al misterioso trombettiere che suona il silenzio è di una bellezza straziante ….
Le.tue riflessioni sull’uso , purtroppo infelice, di chiamare ” paese ” la nostra Italia sono condivisibili in pieno .
Se fossi ancora un’insegnante ti giudicherei ” Cum Summa et laude “.
Ti prego di non smettere di scrivere !!! Grazie.
Aspettavo da giorni i tuoi pensieri e ragionamenti, sempre così delicati ed inaspettati, musicati con le parole. Mi piaciono anche le immagini che sottolineano i vari argomenti, poetiche anche loro, che rappresentano e evidenziano un mondo profondo, passato e attuale nello stesso tempo. Le tue righe mi incantano e vorrei che non finissero mai!