Cosa c’entrano i topi con la prima firma sul giornale? C’entrano eccome, almeno per quanto mi riguarda. Ma andiamo per ordine. Oggi, ve ne sarete accorti, tutti i giornali scritti o parlati sono pieni di firme. A parte i necrologi ce n’è per tutti i gusti: sotto l’annuncio del consiglio comunale (8 righe con 14 nomi ); per la vecchietta novantenne che è scivolata sulle strisce pedonali (dodici righe con un attacco al Comune che non cura la manutenzione); in fondo alle raccomandazioni per affrontare l’esodo estivo (18 righe quasi tutte copiate dal comunicato della polizia stradale).
La firma è anche una responsabilità
Potremmo andare avanti per molto, ma va bene così: chi scrive deve assumersi sempre con nome e cognome la responsabilità di quanto viene pubblicato. Magari, se proprio vogliamo, anche controllando un po’ meglio le fonti. Così, tanto per evitare -come è successo pochi giorni fa per un tragico investimento in Cadore- un ridicolo battibecco tra testate sulla velocità dell’auto investitrice: “Andava a 160 chilometri all’ora. No a 120. Tra 80 e 100. A 80 chilometri”. Questi però sono dettagli, le firme ci sono e guai a chi le tocca.
La firma: un onore per pochi
Una volta però non andava così. La firma era un onore riservato a pochi (editorialisti, inviati, titolari di rubrica, interventi su episodi eccezionali ) e sempre nella parte generale del giornale, quella destinata a tutte le province. In “cronaca” gli articoli non si firmavano mai; le “brevi”, notiziole di nera o di bianca, rimanevano senza autore; i comunicati e le agenzie venivano pubblicati così com’erano e -anche se c’era qualche breve aggiunta- senza firma.
Succedeva così che quando a Venezia accadeva qualcosa di grosso, magari un omicidio eclatante, il cronista di nera si fregasse le mani esclamando: “ C’è il morto!” Ma non si trattava di cinismo, semplicemente era la gioia per la prossima firma. Perché, è giusto dirlo, c’era anche chi in tutta la sua carriera era riuscito a metterla soltanto pochissime volte. Ed era stata sempre una festa.
I miei ricordi
Si capisce così come nei miei primissimi anni di professione la firma fosse una conquista particolarmente ambita. Allora ero un giovane cronista del Gazzettino agli ordini di quello splendido caposervizio che si chiamava Delfo Utimpergher (con colleghi del calibro di Leopoldo Pietragnoli, Claudio Cerasuolo, Michelangelo Bellinetti, Umberto Duse, Lino Castro, Fabio Marangoni, Bruno Tagliapietra) e non mi spaventava niente.
Niente salvo i topi. Quelli invece mi facevano schifo da quando avevo quattro anni. Non so come, avevano fatto un nido in fondo al mio letto e mi mordevano i piedi. Ho urlato per tante notti, ma non mi credeva nessuno. La paura era nata da lì.
Topi padroni di Venezia
A Venezia, se lo volete sapere, ce ne sono tantissimi. Di tutte le dimensioni e per tutti i gusti. Sicuramente, almeno dieci topi per ogni abitante. Di giorno si vedono di rado, salvo quando c’è l’acqua alta. Allora salgono dalle cantine e si arrampicano sulle inferriate dove rimangono appesi, nudi e schifosi. Di notte, però, è un’altra cosa. Diventano i veri padroni della città, scorrazzano senza paura per le calli deserte in cerca di rifiuti e di qualsiasi cosa possano mettere sotto i loro denti aguzzi. Diciamo che se di giorno comandano i gabbiani, al buio spadroneggiano loro.
Se un topo, o meglio una pantegana rischia di farmi perdere la firma
Ecco, la mia avventura più pericolosa l’ho avuta proprio con un topo enorme, una pantegana per la precisione. Per chi non lo sa sono i ratti più grossi, quelli più pericolosi, che infestano le fogne e fanno fuggire i gatti. Del resto sono grandi quasi come loro, ma molto più aggressivi. Hanno un morso che non perdona e come non bastasse trasmettono pure la leptospirosi. Una malattia micidiale.
Quella volta, all’inizio degli anni ’70, era toccato a me il turno più noioso e meno gratificante. Sto parlando del periodo di guardia, dalle otto di sera alle due di notte. Quello da passare in redazione in attesa di una notizia che in genere non arriva mai. E che se poi arriva è sempre sul filo della chiusura dell’ultima edizione, quando bisogna scrivere con il cuore che batte. Quella sera però, poco dopo le dieci, era finalmente successo qualcosa.
Quando arriva la notizia “da firma”
Vicino a campo Santa Maria Formosa, in un appartamento, un uomo aveva esploso un colpo di pistola contro la compagna; poi s’era suicidato con un proiettile in fronte. La donna però ancora non era morta ed era stata trasportata d’urgenza all’ospedale. L’amico centralinista che aveva passato l’informazione non aveva aggiunto altro. Dovevo perciò correre da Ca’ Faccanon a San Giovanni e Paolo per conoscerne il nome e controllare alla svelta cos’era successo.
Tempi calcolati al millesimo
Dalla vecchia sede del Gazzettino, sfruttando il gioco dei ponti e delle calli in quindici minuti ce la potevo fare. Calcolandone altri quindici per il ritorno e almeno venti per informarmi bene, c’era tutto il tempo per il pezzo di prima pagina, per la prima volta con tanto di firma, nell’edizione di mezzanotte.
Se un commissario rischia di farmi perdere la firma
Ma era solo teoria, perchè un agitatissimo commissario di polizia, da poco a Venezia, mi stava facendo perdere del tempo prezioso. Più che parlare, urlava che ai particolari ci avrebbe pensato il magistrato l’indomani, che non era il momento, che insomma, dovevo togliermi dai piedi se non volevo guai. Ma guai più seri di sicuro me li avrebbe fatti passare il direttore Lauro Bergamo se tornavo senza niente.
Un angelo custode mi aiuta per la firma
Per fortuna – anche i giovani cronisti hanno un angelo custode – di guardia al posto di polizia c’era un appuntato che conoscevo, un signore dell’età di mio padre, che a forza di sentirmi ogni sera al telefono aveva preso a volermi bene. Lui aveva subito capito tutto.
Faceva finta di non conoscermi, ma teneva spalancato il registro delle novità e senza parere aveva appoggiato un dito su un punto. C’erano nomi e cognomi delle vittime (perché nel frattempo la donna era morta) ora e luogo dell’omicidio-suicidio segnato in rosso. Allora avevo la vista di un falco e una memoria di ferro. Quei dati bastavano ed ero corso via.
Fuori era ormai notte e in campo non girava nessuno
Avevo infilato calle delle Tette con orgasmo, nemmeno fossi stato un marinaio della Serenissima in astinenza da mesi, perché ormai il tempo era contato. Ma una volta sul ponte in ferro m’ero fermato di blocco. In mezzo, alta sulle zampe dietro, irsuta, con la bocca spalancata e i baffoni che vibravano, una gigantesca pantegana mi sbarrava il passo soffiando. Era la padrona di casa e non voleva saperne di farmi passare, anche a costo di azzannarmi.
Tra me e la firma una pantegana
Se ci riuscite, provate ad immaginare come mi sentivo. Mi batteva il cuore all’impazzata, sudavo ed ero come ipnotizzato da quella bestiaccia diabolica. Sì, è vero, potevo tornare indietro e scegliere l’altro ponte vicino all’ospedale, ma avrei allungato troppo la strada e rischiavo di non farcela.
Perciò, che mi crediate o no, ho tirato fuori tutto il coraggio della disperazione. Ho attaccato un urlo e mi sono lanciato contro quella bestiaccia, il nemico dei miei incubi. Non lo so, forse era più terrorizzata lei di me, forse mettevo veramente paura tanto ero stravolto. Fatto sta, che con un guizzo, un momento prima dell’impatto, quel topone gigantesco s’è tuffato in acqua e nuotando veloce è sparito.
Alla fine l’agognata firma
Il resto non merita di essere raccontato. La firma in prima pagina, quella che non si dimentica mai, era stata conquistata. E vi piaccia o no, questa secondo me è stata l’avventura più pericolosa della mia vita. Da non raccontare a nessuno, salvo a qualche veneziano che di pantegane se ne intende. Ed ha il coraggio ancora di gironzolare, di notte, sul ponte delle Tette.