Il 25 luglio del 1943, ottant’anni fa, cadeva il fascismo. Ma non finiva la guerra. Sarebbe durata ancora quasi due anni e sarebbe stata anche guerra civile, fratelli contro fratelli, in un’Italia divisa in due.
Era stato un luglio caldo e difficile. Sui giornali la piccola cronaca per un momento faceva dimenticare la grande tragedia. Il governo aveva appena incassato 12 miliardi di lire coi nuovi Buoni del Tesoro; il fante bellunese Giovanni Pedandola di Rivamonte aveva conquistato la prima pagina del Gazzettino col suo eroismo combattendo contro i partigiani del Montenegro: “Una scheggia di mortaio gli ha strappato la mano destra, lui si fa curare e ritorna all’assalto carico di bombe a mano”.
Il 10 erano sbarcati gli Alleati in Sicilia, Mussolini si era lasciato andare nel discorso del “bagnasciuga” assicurando che “46 milioni di italiani – meno trascurabile scorie – sono in potenza e in atto 46 milioni di combattenti che credono nella vittoria”. Nell’enfasi aveva scambiato la battigia, che è la linea della barca lambita dall’onda, col bagnasciuga.
A luglio le cose iniziano ad andar male
Le cose decisamente vanno male. L’esercito italiano si è ritirato a pezzo dalla Russia perdendo 90 mila uomini; via anche dall’Africa: sulla neve e sulla sabbia non è mancata una resistenza a tratti eroica. Con oltre un milione di soldati impegnati nella Jugoslavia, nei Balcani, in Grecia e nelle isole, l’esercito del duce non è in grado di opporsi quando 150 mila inglesi e americani sbarcano in Sicilia con seimila carri armati e mille cannoni e bulldozer e jeep che vengono scaricati dal ventre di capaci aerei Dakota.
Il generale Patton che guida l’invasione in sette giorni occupa l’isola e questo accende la miccia della carica esplosiva posta da tempo sotto la sedia di Mussolini che non può rinviare ancora il faccia a faccia col Paese. Intanto, da mesi il re è impegnato in manovre segrete per far fuori il regime e tagliare i ponti con l’alleato tedesco. Vittorio Emanuele III si pone come punto di riferimento dell’esercito e di quei fascisti che hanno capito che è stata imboccata una strada che porterà al disastro. Tra loro Dino Grandi, il genero del duce Galeazzo Ciano, Giuseppe Bottai. Il sovrano spinge perché Grandi, da presidente della Camera fascista, tolga il terreno sotto i piedi di Mussolini. I Savoia ritendono il capo del fascismo ancora in grado di fare un colpo di stato e temono la reazione dell’alleato Hitler.
19 luglio; bombardamento di Roma
Il 19 luglio è un’altra di quelle date che segnano la nostra storia. Mussolini è a Feltre per incontrare Hitler, nella villa Gaggia a Socchieva. Proprio nel giorno in cui è assente, gli Alleati bombardano Roma: 500 aerei, 700 tonnellate di bombe, tra il Tiburtino e la zona di Stazione Termini si contano 717 morti e duemila feriti. Nessuno aveva mai osato prima di colpire l’Italia al cuore. Nei quartieri popolari va Papa Pio XII, uscendo eccezionalmente dal Vaticano.
Lo fotografano a San Lorenzo mentre prega tra la folla, la veste bianca, le braccia aperte quasi come un uomo in croce, attorno case sventrate, facce spaventate, donne e bambini. Una immagine che mette ancora di più in evidenza l’assenza di Mussolini che ha capito che attorno a lui si è fatto il vuoto. Va a trovare il re, esce convinto che la Corona lo difenda, mentre l’inquilino de Quirinale sta già organizzando la difesa di Roma dopo il fascismo.
Tutto cambia il 25 luglio
Tutto cambia la notte tra il 24 e il 25 luglio. La seduta del Gran Consiglio è fissata per le ore 17 del 24, un sabato, a Palazzo Venezia. Dino Grandi varca il portone con due bombe a mano nella cartella e dopo aver lasciato un testamento. Ci sono tutti nella sala del Pappagallo, 28 tavoli disposti a ferro di cavallo. Mussolini si lamenta subito: “In questo momento io sono l’uomo più detestato, anzi più odiato d’Italia”. Parla per due ore. Poi arrivano l’attacco di Bottai e la bordata pesante di Grandi che chiede di rimandare al re il comando supremo, infine getta sul tavolo il suo ordine del giorno che fa riferimento allo Statuto del Regno dove dice che “il Re dichiara la guerra e negozia l’armistizio”. Ciano aggiunge un attacco diretto agli alleati tedeschi.
Mussolini ammonisce: “Chi chiede la fine della dittatura sa di volere la fine del fascismo”.
Si vota alle 2.30 della notte, l’ordine del giorno Grandi passa con 19 voti a favore, 8 contrati e un astenuto. Hanno detto di sì: Grandi, Ciano, i due quadrumviri De Bono e De Vecchi, il ministro Antonio De Marsico, i sindacalisti Bignardi e Rossoni, il presidente dell’Accademia d’Italia Federzoni, i sottosegretari Albini, Bastianini e Cianetti, il ministro Acerbo, Bottai, il ministro Pareschi, il presidente della Confederazione industriali Gottardi, il veronese De Stefani, Marinelli polesano di Adria e coinvolto nel delitto Matteotti, l’ambasciatore a Berlino Alfieri.
Ha scritto lo storico del fascismo Renzo De Felice: “Fra di loro c’era chi voleva la fine del regime, chi voleva imbalsamare Mussolini, chi voleva rafforzare il fascismo. Grandi seppe muoversi con molta spregiudicatezza, lasciando che ognuno intendesse l’ordine del giorno come più gli piaceva…”.
Il 25 luglio il Duce portato via con un’ambulanza
Il giorno dopo, il 25, alle cinque del pomeriggio, vestito in borghese, Mussolini si reca a Villa Savoia, la residenza privata del sovrano. Non lo insospettisce la presenza di un’ambulanza che servirà a mascherare il suo arresto. Nemmeno la presenza dei carabinieri.Il colloquio dura meno di venti minuti, il re balbetta ma sembra deciso: “Le cose non vanno più… l’Italia è in tocchi… Il voto del Gran Consiglio…Mi dispiace, ho pensato che l’uomo della situazione è il maresciallo Badoglio. Fra sei mesi si vedrà”. Alle 17.25 Mussolini si lascia arrestare senza opporre resistenza e viene caricato sull’ambulanza. Cinque minuti dopo il re convoca Pietro Badoglio che si precipita con la lista dei ministri in tasca.
L’annuncio viene dato alle 22.45 dai microfoni dell’Eiar, un comunicato registrato e letto dall’annunciatore Titta Arista: “Attenzione! Attenzione! Sua Maestà il Re Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini… e ha nominato Sua Eccellenza il cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”.
La folla si riversa nelle piazze, le grida di festa non fanno sentire le ultime parole di Badoglio: “La guerra continua, l’Italia duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene la parola data”.
La gente non capisce o non vuole capire, abbatte i fasci littori, fa a pezzi le statue di Mussolini, getta nelle distintivi del fascio e camicie nere. Il ripudio fascista è selvaggio. Leo Longanesi annota che gli italiani erano improvvisamente raddoppiati: 40 milioni di fascisti e 40 milioni di antifascisti.
Badoglio il giorno dopo registra un appello agli italiani: “Non è il momento di abbandonarsi a manifestazioni che non saranno tollerate…Sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente”. Il governo Badoglio abolisce la tassa sul celibato si dimentica delle leggi razziali. Con tre regi decreti del 2 agosto il fascismo viene smantellato, proibito anche usare l’aggettivo fascista.
Ma la guerra continua
I vecchi antifascisti continuano a restare in carcere, i prefetti hanno l’ordine di arrestare le persone sospette e gli elenchi delle prefetture contengono soltanto nomi di oppositori del regime. Sono giorni terribili, l’esercito mitraglia la folla, non era accaduto nemmeno durante il fascismo. I soldati il 28 luglio sparano a Bari sugli operai che festeggiano la caduta del fascismo, venti morti, tutti giovanissimi. Si contano un centinaio di vittime in tutta Italia.
I partiti cercano di riorganizzarsi. Un respiro che dura poco più del mese di agosto, l’8 settembre del ’43 il re e Badoglio sono pronti per l’Armistizio e l’Italia si dividerà in due, in un giorno i vecchi nemici saranno i nuovi alleati, i vecchi amici il nuovo nemico. Sarà guerra di resistenza e anche guerra civile. Il re, il governo e la sua corte scapperanno verso Brindisi, imbarcandosi disordinatamente a Ortona. Roma viene abbandonata ai tedeschi che invadono il resto d’Italia e fanno prigionieri 650 mila soldati italiani che vengono internati in Germania.
Mussolini sarà liberato da Hitler e rimandato in Italia per fondare una repubblica collaborazionista a Salò, la Repubblica Sociale. Uno dei primi atti sarà quello di istituire un Tribunale Speciale per condannare a morte “i 18 traditori del Gran Consiglio”. Molti saranno condannati in contumacia, ma cinque vengono fucilati all’alba a Verona, in un poligono di tiro, legati a una sedia. “Per la giustizia e per l’Italia”, dice il titolo del Gazzettino. Sono De Bono, Marinelli, Ciano, Gottardi e Pareschi. Cianetti salva la vita, condannato a 30 anni. Mussolini non ha potuto o non ha voluto far niente per salvare il genero Galeazzo Ciano, marito di Edda.
Da quel 25 lugli ad altri due anni per un’Italia nuova
Ci vorranno altri due anni perché la guerra davvero finisca e si incomincino a contare i morti e a immaginare il futuro di un’Italia nuova, senza guerra, senza fascismo, senza monarchia. Un’Italia libera e finalmente Repubblica. Molti più anni, e non è finita, perché gli italiani costruiscano una memoria se non unita almeno comune. Forse i conti col fascismo non sono stati fatti al momento giusto, forse la voglia di dimenticare e insieme di soffocare le responsabilità ha lasciato troppe ombre sul futuro di quell’Italia. Ma il senso, anche 80 anni dopo, è quello della Storia. Tutti i morti meritano rispetto e pietà. Ma i motivi per i quali sono morti non può essere confuso: tra chi combatteva per la libertà e chi accanto all’invasore c’era una differenza. E’ su quella differenza che oggi noi siamo un popolo libero, una nazione democratica, una repubblica parlamentare.