Un ritaglio di giornale, dice il vecchio cronista, contiene forse più storia di un comizio elettorale. Questo perché la notizia salvata è come una stanza piena di echi, di nomi, persone, situazioni che “interrogano” chi legge, rimbalzano contro le pareti moltiplicandosi e scatenando pensieri. Prendi per esempio questo titolo: “Nel nome di Paola che è morta di fatica…” Morire di fatica, oggi! Avete letto bene, e subito la vostra anima sensibile si ribella all’idea stessa della fatica-killer in un’Italia del XXI secolo dotata di tanti apparati tecnologici a protezione dell’Uomo come specie e come singolo.
L’incredulità, però, cozza contro l’evidenza dei fatti, risalenti all’estate del 2015 in Puglia dove Paola Clemente la raccoglitrice di frutta crollò sul campo stroncata dal caldo e dalla fatica. Si è tornati a parlarne per una “puntata” del processo che seguì a quella morte.
Per chi vive nelle città, la campagna, non solo quella assolata del sud è soltanto “una espressione geografica”, non certo per chi la fatica stremante sui campi l’ha vista e anche un po’ vissuta.
L’aglio bianco polesano e la fatica di raccoglierlo
Erano gli anni remoti della giovinezza e l’Anonimo, una mattina d’estate – non c’erano vacanze per lui – fu svegliato dalla madre prima dell’alba e andò con lei nei campi a raccogliere l’aglio maturo (oggi famoso come prodotto di nicchia, si chiama aglio bianco polesano). Si usciva che ancora era buio e si vedevano fioche le stelle: la mamma, insieme ad altre contadine del paese, scavava le piantine, incrostate di terra, mentre io dovevo distenderle ordinatamente sul terreno in modo che asciugassero per poi farne mazzi o mannelli e reste, naturalmente.
La fatica più dura la facevano le donne, io venivo risparmiato, stavo di riserva, quasi quel lavoro fosse un gioco. Ma appena cominciava il canto dell’allodola con il suo volo verticale poco lontano da noi, e il sole usciva dalla nebbiolina mattiniera, la pelle cominciava a bruciare, la Bionda e le altre donne si fermavano sempre più spesso, si toglievano per un attimo il cappello di paglia per asciugarsi il sudore o per bere un sorso d’acqua e aceto dal fiasco impagliato. E poi di nuovo a scavare le piantine, centinaia, migliaia: nessuno le contava.
La fatica fa parte della vita
Era dura, ci si intontiva nella luce abbagliante del sole che era sempre più alto, anche le voci umane si affievolivano, ma si andava avanti. Si scavava fino a un’ora convenuta oltre la quale si sospendeva il lavoro e si tornava a casa perché c’era il rischio di prenderci un’insolazione (fatica più calore…). A volte, lo si raccontava, una ragazza o una sposa cadeva svenuta e allora la si adagiava sotto un albero perché si riprendesse mentre le altre lavoravano anche per lei.
Era bello, ma solo per me forse, vedere quelle file geometriche di bulbi bianchi regolari, da noi chiamati “teste”, schierati sul terreno grigio dove sprigionavano il loro caratteristico odore pungente esaltato dal sole; e mi sentivo soddisfatto e fiero di aver partecipato a qualcosa “da grandi”, come ad un rito sociale, dove il frutto del lavoro è quasi un segno del nostro passaggio.
La fatica associata al lavoro nei campi o al lavoro tout court, era con noi come l’ombra stampata sulla terra, faceva parte della vita, del nostro destino.
Arte. La fragilità che difende
È un fatto: fra gli altri doni, gli artisti hanno quello di sorprenderci, di accendere la nostra meraviglia come ha fatto ultimamente il veneto Franco Beraldo presentando a Padova, negli spazi dei Musei civici le sue più recenti creazioni raccolte sotto il titolo di Barricate misteriose. Titolo curioso, specialmente se si considera che quei lavori sono tutti realizzati in vetro a Murano.
Le barricate sono elementi di difesa, come vuole tradizione (rivolte popolari, le Cinque giornate di Milano ecc.) ma l’artista le ha costruite con la materia meno adatta, anzi la più fragile. Ma è proprio qui il segreto della mostra, la sua originalità, il pensiero dominante dell’artista. Non è soltanto la fragilità della materia vetro che Beraldo ha in mente quando realizza la linea difensiva delle sue piccole “muraglie” dai bei colori trasparenti lo fa perché ha in mente un’altra fragilità e un altro nemico da respingere: è la fragilità di noi umani, esposti ai colpi violenti e demolitori della Realtà: la nostra fragilità è la sola forza che abbiamo a disposizione.
Le barricate umane, suggerisce questo pittore nostro contemporaneo sono forze fantasiose e misteriose che opponiamo al male di vivere, al mal-essere del nostro tempo. Lui ci dice, poeticamente, che ogni barricata che alziamo, lungo l’esperienza umana, è simile a una frontiera; e le frontiere, si sa, “attraversano i cuori” (A. Solgenitsin).
Citazione d’autore
“Il tempo si muove in avanti, Il tempo è un fiume che
scorre sempre, che porta via tutti i nostri sogni.
Per questo noi ricordiamo il passato, ma non il futuro.”
Stephen Hawking, cosmologo inglese (1942-2018)