Voce di piazza: “ ’scoltime mi, lassa star: dàghe tempo al tempo”. Un mondo in sette parole, che poi sono di stretta pertinenza alla cultura popolare, al sentire “della gente”. Si potrebbe anche dire che questo consiglio non richiesto richiama e fa ricordare, nel tumulto del presente chiassoso, il “torpore della civiltà contadina”, di quando il ritmo del vivere quotidiano era condizionato dalla soddisfazione dei bisogni immediati: un tempo vischioso e lento.
Oggi è un fatto evidente che di tempo, sia meteorologico sia soprattutto storico, si parla continuamente e spesso sbadatamente, non solo in piazza o al bar, e il risultato è che il passato si insinua nella nostra condizione esistenziale, come risulta evidente da certi anniversari anche recenti cosiddetti divisivi.
A proposito di tempo andato, è ancora diffuso il vizio di “guardare indietro” come all’oracolo, con il rischio di “perdere di vista il futuro, e a volte anche il presente” come ha chiosato Massimo Franco sul Corriere. In altre parole, c’è un’insidia da schivare ed è una pericolosa sirena, quella di farsi abbagliare, o meglio, di obbedire alla voce che da lontano – da remoto – sussurra al nostro orecchio…. I ricordi, nostri e altrui, sono una forma di tempo compresso e non sono la copia di eventi ma una loro ricollocazione nel presente…
Il fatto è, ci ricorda il saggio, che noi tutti, come specie s’intende, veniamo da lontano: il nostro Dna ha viaggiato nel tempo, e continua oggi accendendo focherelli di nostalgia per un’infanzia umana che non si è vissuta ma ci è stata trasmessa come narrazione (o vogliamo dire come mito?)
Il teatro in una stanza
Metti, un tardo pomeriggio di primavera, un indirizzo nella lunga via Felisati a Mestre, e l’insegna curiosa e invitante: FuoriPosto, dietro la quale, si scopre, c’è da anni un’associazione culturale, condotta da Paola Brolati: una sede in cui, nello spazio di quaranta metri quadrati, si riesce a fare cultura con incontri, dibattiti, presentazioni di libri e perfino qualche rappresentazione teatrale; in più, una rivista d’arte che pubblica “materiali irregolari di cultura libertaria”.
Proprio in quell’unica stanza, che in altri tempi avremmo chiamato teatrino off, oppure, pariginamente, cave e oggi si dice nicchia (trentacinque posti a sedere), ha inscenato un frizzante monologo autobiografico l’attrice veneziana Carlotta Ballarin, attrice per passione e prof di lettere per … vivere. Titolo: “Insegnamento e sconforto”, regia di Paola Brolati.
Una splendida sorpresa
È stata una sorpresa, un divertimento inaspettato, frutto di una comicità pensosa, di una ironia velata di tristezza, di una gestualità che sottende un’istintiva maturità scenica: l’autrice-interprete ha scavato senza paura nelle vicende di una famiglia vera, la sua – padre veneziano, madre tedesca, una sorella. Diciamo pure che ha scritto coraggiosamente una confessione o meglio un’analisi sotto i riflettori e in faccia ad estranei, una analisi che ha preso più da Goldoni che da Freud, Jung e Lacan messi insieme. Il filo rosso della pièce? Una lezione di vita impartita a una trentina di studenti di media superiore, con un finale sorprendente e con esilaranti invenzioni fra cui un Inno allo spritz con l’autoironia come contorno.
L’attrice-scrittrice ha trasformato sé stessa in una indiavolata e problematica prof – ragazza di mezza età che ha saputo trasfigurare i suoi problemi personali calandoli in una narrazione scoppiettante, dai risvolti comici quanto realistici, dove le persone evocate dalla realtà si sono trasformate in personaggi: magia del teatro.
La voce e la mimica di Carlotta (quasi una danza in certi momenti) hanno conquistato il pubblico e perfino… la madre Helga, presente in terza fila.
La stanza di via Felisati 70c si è come dilatata intorno a lei e il pubblico ha sentito la vicinanza con l’interprete come se lei (si) raccontasse in un confidente a tu per tu con ciascun spettatore.
Ci sono di queste preziosità nella Venezia di terraferma.
E lucean le stelle…
L’avanzare della consapevolezza ecologica, con il risparmio energetico che induce i sindaci a contenere l’illuminazione pubblica e dunque a lasciare più spazio al buio, ci sta rendendo più sensibili alla visione notturna, anzi alla “riscoperta del buio (e del cielo stellato)” come recita il titolo di un ritaglio di giornale che ho conservato. La notizia è che l’oscurità può favorire un tipo di turismo, quello di osservare il firmamento guidati da astronomi professionali.
In particolare, esistono veri e propri parchi chiamati Dark Sky Park riservati all’oscurità dove “il cielo appare come ai tempi dei nostri bisnonni”. Tali parchi sono protetti dall’invasione della luce, che nel quotidiano si associa al rumore di fondo delle città. Buio e silenzio per un nuovo incantamento… E c’è anche un libro su cui meditare, dal titolo inequivocabile: Elogio del buio, scritto da uno scienziato svedese, Johan Eklof per l’editore Corbaccio. Lo scopo di tutto questo, detto in quattro parole, è: “Non perdiamo la notte”.
Cronistoria
(poesia)
Mi sono successe varie cose
nelle ultime ore. Ho aperto la porta
a una venditrice di sapone. Ho visto
un bambino in altalena ingoiare pezzetti
di nebbia. Ho sistemato i miei libri d’arte
in garage tra guanti lisi e una pila per auto.
Ho provato invano a far rivivere
dei fiori esanimi in un secchio.
Ho anche cancellato un ricordo fastidioso.
C‘era un chiasso infernale di postini,
taxi, pizzerie, scolari delle medie.
Infine è sceso il silenzio. Il lungo, infaticabile
coro del silenzio delle nuvole e della luna.
Paolo Lanaro
Da Poesie dalla scala C, Edizioni L’Obliquo, 2011