Con questo editoriale di Alberto Laggia firma di Famiglia Cristiana e esperto del mondo della Chiesa, e di Ivo Prandin uno degli autori più rappresentativi del Veneto auguriamo Buona Pasqua a tutti i nostri lettori. Per qualche giorno il tema delle dimissioni di Papa Francesco dal policlinico Gemelli, dov’era stato ricoverato per un’infezione respiratoria, ha oscurato quello ricorrente di ben altre dimissioni, quelle dal pontificato, tema dal papa stesso affrontato più volte, in modo inedito. L’apprensione con cui il mondo intero ha seguito i bollettini medici riguardanti la sua salute all’inizio della Settimana Santa dice già molto sul “segno” che sta lasciando questa figura di pontefice, ben oltre i confini del cattolicesimo. Una vera rivoluzione.
Quando inizia la rivoluzione di Papa Francesco
Era il 13 marzo 2013, di sera, quando i 115 cardinali chiusi nella Cappella Sistina elessero, al quinto scrutinio, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. Primo papa gesuita, primo papa americano. Un pontefice “venuto quasi dalla fine del mondo”. Sono trascorsi dieci anni di pontificato di papa Francesco, il primo pontificato “globale”, come qualcuno l’ha definito: un tempo già sufficiente per un bilancio, in un’epoca segnata da grandi mutamenti, pur senza dimenticare che un decennio è poco più che un nulla nella storia bimillenaria della Chiesa cattolica.
Una rivoluzione iniziata con “buonasera”
Già dai primi secondi dopo l’affaccio dalla Loggia delle benedizioni, da quel primo, spiazzante “buonasera”, si poteva intuire che il suo pontificato avrebbe riservato molte sorprese. E così è stato. Ma ci sono novità e novità: ha peso assai diverso usare l’utilitaria per gli spostamenti, o affiggere il cartello alla porta del suo appartamento a Santa Marta con scritto “vietato lamentarsi”, rispetto alla nomina di un vescovo in una terra dove i cristiani sono perseguitati, o fondere assieme due dicasteri curiali. E’ stato subito evidente, comunque, che “c’era un’aria fresca del Sud che ha fatto irruzione nella Chiesa”, per usare una frase del teologo argentino Juan Carlos Scannone. Non un refolo, ma una raffica.
Il Papa delle prime volte
E’ indiscutibile che Bergoglio sia il “papa delle prime volte”, come l’hanno felicemente definito Gerolamo Fazzini e Stefano Femminis. Ad iniziare dalla scelta del nome: qu siibi nomen imposuit Franciscum, come il poverello d’Assisi, nome che nessuno dei suoi predecessori aveva mai scelto salendo al soglio pontificio. Primo papa gesuita, abbiamo detto. E per trovarne un altro proveniente da un ordine religioso bisogna tornare indietro di quasi due secoli (Gregorio XVI, camaldolese, nel 1831). E primo papa discendente da emigranti (italiani stavolta), provenienti da una “periferia”, da quel “bricco” Marmorito, borgata di Portacomaro Stazione, disperso tra le alture astigiane.
Prime volte che hanno portato alla rivoluzione
E proprio grazie a un’altra “prima volta” si può iniziare a comprendere la cifra di questo papato, se non addirittura il programma pastorale ed esistenziale del papa argentino. Solo due anni dopo l’elezione, infatti, papa Francesco indice, novità assoluta, un Giubileo straordinario sulla Misericordia. E, sconvolgendo la prassi secolare, apre la porta Santa lontanissimo da Roma, a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Ed è il primo papa che va in un Paese in cui è in corso una guerra.
La rivoluzione è insita in Papa Francesco
C’è già tutto Papa Francesco: l’amore per i poveri, per i migranti, per le periferie esistenziali e fisiche; c’è già tutta la “chiesa in uscita” voluta con forza, anche se contestata fin dall’inizio da una frangia interna che continuerà ad opporre resistenza. E sullo sfondo c’è la parola chiave, la password per capire i tratti costitutivi di questo pontificato: “misericordia”, ovvero il “vero volto di Dio”, la verità prima, annunciata dal Vangelo, sine glossa, “senza calmanti”, come spiegò ai superiori generali degli istituti superiori a novembre del 2016; Vangelo da cui deve ripartire la Chiesa per essere luogo accogliente e credibile.
Un Papa “diverso”
Da qui si possono meglio comprendere i gesti “feriali” come la messa a Santa Marta, i “venerdì pomeriggio della Misericordia”, i pranzi con i clochard, le telefonate senza preavviso, l’invio dell’elemosiniere, o l’istituzione della Giornata mondiale dei poveri, e ancora la messa del Giovedì Santo 29 marzo 2013, quando lava i piedi a dodici detenuti nel carcere minorile di Casal Del Marmo (prima volta che la Lavanda dei piedi esce dalla Basilica di San Pietro; prima volta a due ragazze, di cui una musulmana).
Una Chiesa diversa
Da questa intuizione teologica anche l’idea di chiesa come “ospedale da campo”, con un’altra delle sue fulminanti metafore che lo hanno consacrato grande comunicatore con semplici immagini popolari: “un ospedale da campo dopo la battaglia, che cura le ferite e riscalda il cuore”. Una chiesa che si faccia prossimo, vicina “a tutti coloro che hanno bisogno di consolazione”, senza escludere nessuno.
La rivoluzione di una Chiesa in uscita
Vicina a questo concetto sta l’altra immagine bergogliana, ormai famosa, di “Chiesa in uscita”, la cui prima citazione compare già nella sua prima esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Il concetto pastorale dei cristiani come dei “girovaghi della fede”, callejeros de la fe, viene dalla Quinta conferenza generale dell’episcopato latino-americano celebratosi a Aparecida (Brasile nel 2007). Quindi, afferma il “posto di Cristo è la strada. E così pure il posto del cristiano”. Ecco giustificata la Chiesa missionaria, e una conseguente pastorale sociale che diventa scelta politica, per gli ultimi. Fin dagli abiti che indossa papa Francesco mostra di prediligere questo modello ecclesiale: dalla vecchia borsa scucita che porta nei viaggi, alla croce di ferro, fino alle scarpe grosse, regalategli quand’era cardinale dalle cugine piemontesi.
Un occhio di riguardo per i preti di strada
Non è casuale, allora, la sua predilezione per i preti di strada, i “curas villeros”, i preti di frontiera, che hanno l’odore delle pecore: quelli che facevano i parroci nelle periferie di Buenos Aires e delle altre periferie degradate latino-americane, dove operano presbiteri che uniscono alla spiritualità profonda, la lotta per i diritti sociali, contro il narcotraffico, che si immolerebbero per il loro popolo. I preti che rischiano, che si sporcano le mani, non i carrieristi, o quelli che stanno in ufficio. Il suo recente pellegrinaggio a Bozzolo e a Barbiana, terre di sacerdoti scomodi come don Mazzolari e don Milani, sta lì a dimostrarcelo.
Una vera rivoluzione
E da questo tipo di pastori, Bergoglio, guarda caso, ha sempre attinto per le nomine episcopali. Per fare solo due esempi, uno in Argentina e uno in Italia, si vedano i profili di Gustavo Oscar Carrara, vescovo ausiliare di Buenos Aires, un ex-prete delle “villas miserias”, e quello di monsignor Claudio Cipolla, semplice sacerdote, già direttore della Caritas di Mantova, oggi vescovo di Padova.
La riforma di Papa Francesco
Questa è la prima e più importante riforma voluta da papa Francesco, come spiegò in una famosa intervista rilasciata a padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica: «La riforma dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade».
Papa Francesco e i tanti progetti aperti
Sulle riforme strutturali e organizzative, papa Francesco ha indubbiamente aperto tanti cantieri, alcuni, oggi, in stato avanzato, altri appena appaltati. “Fare le riforme a Roma è come pulire la sfinge d’Egitto con lo spazzolino da denti”, mandò a dire un giorno. E quella della riforma della Curia romana, ricordiamolo, era stata la sfida persa dal suo predecessore Benedetto XVI. E’ evidente in questo tentativo lo sforzo di dare una svolta più “collegiale” al governo della Chiesa: l’istituzione del “Consiglio dei cardinali”, il cosiddetto “C9”, rinnovato da poco, va in questo senso, come pure il ruolo rinnovato e potenziato dei Sinodi, questi mini-conclavi territoriali che coinvolgono le comunità dal basso.
Dalla predilezione per i preti di periferia, a quella per le chiese delle periferie del mondo il passo è breve
E’ l’altra grande scommessa di Bergoglio, diventata programma perseguito con determinazione fin dal primo concistoro. Qualche numero per capire: papa Francesco ha nominato 122 nuovi cardinali provenienti da ogni parte del mondo. Il 27 agosto l’ultimo Concistoro, l’ottavo, con la creazione di 20 nuovi cardinali, 16 dei quali con meno di ottant’anni e dunque elettori in un eventuale Conclave, che provengono da 43 nazioni diverse di cui ben 15 da Paesi che non avevano mai avuto un porporato. Solo cinque sono stati i cardinali di Curia.
E l’Italia perde sempre più peso nel Sacro Collegio che è arriva al record di 83 nazioni rappresentate. Anche il peso degli europei cala (come d’altra parte cala il numero di credenti del vecchio Continente e dilaga sempre più la secolarizzazione, vuotando chiese e seminari): dal 52% degli elettori di dieci anni fa, al 39% di oggi, mentre aumenta la presenza dei due continenti dove il cristianesimo cresce, l’Africa e l’Asia, ma senza dimenticare le Americhe, valorizzando molte sedi “periferiche” non cardinalizie (vedi Laos e Centrafrica) perseguitate, o comunque a minoranza cattolica. Insomma meno Europa e più mondo, nel nome della valorizzazione del cosiddetto “Global South”.
Ci sono anche dei rischi
Non è difficile capire come l’accelerazione verso la sinodalità e la valorizzazione delle chiese periferiche comporti dei seri rischi: primo fra tutti quello di un indebolimento della centralità di Roma e del primato di Pietro, con una tendenza centrifuga di alcuni episcopati, specie in Europa e negli Usa. Alcune conferenze episcopali come quella tedesca, poi, sono ormai entrate in aperto contrasto con Roma, su tematiche importanti come la sessualità e ogni giorno il solco sembra allargarsi. Qualche osservatore parla addirittura di “scisma di fatto”. La scommessa del papa argentino, insomma, è tutt’altro che vinta.
Papa modernista? Buonista? Populista?
Come lo tacciano alcuni movimenti tradizionalisti? Alla domanda diretta se si ritenesse un rivoluzionario, un giorno rispose così a una giornalista spagnola de La Vanguardia: “Io rivoluzionario? Sì, se significa andare alle radici, per conoscerle e vedere cosa abbiano da dirci in questo momento”. Detta in altri termini: il primato del Vangelo sulla dottrina è intoccabile.
Perché è una rivoluzione
Sicuramente è stato dirompente nella critica al sistema socio-economico (il “turbocapitalismo”) che allarga le diseguaglianze e accumula “ricchezze sfacciate” nelle mani di pochi. Per stigmatizzarlo Bergoglio non ha disdegnato espressioni dure, ormai divenute proverbiali, come “società dell’esclusione”, e “cultura che produce gli scartati”. Da qui è nato il movimento internazionale “The economy of Francesco”, un seme di speranza intuito dai giovani.
Un Papa ecologico
Altrettanto forte la sua critica ai modelli di produzione perché devastatori dell’ambiente. Mai un papa aveva dedicato un’enciclica alla “cura della casa comune”: con la Laudato sì, “l’enciclica verde” com’è stata subito ribattezzata, Francesco detta il suo modello di “ecologia integrale”, evidenziando il nesso esistente tra cura del creato e lo sradicamento delle povertà. Che questo testo abbia mosso tante coscienze è innegabile. Quanti uomini di governo, amministratori, dirigenti hanno posto esplicitamente l’enciclica come manifesto programmatico del loro agire? Ma l’appello radicale, sottolinea, invece, Luigi Accattoli, “è stato rigettato da parte della maggioranza silente”.
Carisma e rivoluzione
Insomma: papa Bergoglio assomiglia di più a un profeta carismatico, ma inascoltato, come quando iniziò a dire che la terza guerra mondiale “a pezzi” è già iniziata, o a un’autorità a cui il mondo intero, e non solo le grandi cancellerie, guardano sempre più con attenzione e ammirazione? E, in seno alla Chiesa che naviga nelle acque agitate della contemporaneità, sarà sempre più un capo depotenziato e isolato, o un riformatore capace di traghettare il cattolicesimo, affrontando le sfide che l’oggi pone alla fede? Un tentativo di risposta a una domanda, che comunque non può che rimandare a bilanci ulteriori, la prendiamo ancora dal gesuita Spadaro quando conclude: “Jorge Mario Bergoglio è forte proprio perché non è, né vuole essere un “uomo forte”. In coerenza del nome che scelse all’inizio, quel 13 marzo 2013, che evoca la forza disarmata dell’umile fraticello, il Santo d’Assisi.