La mostra “Vivian Maier. Shadows and Mirrors”, è composta da 93 autoritratti, racconta la grande fotografa e la sua ricerca incessante di trovare un senso e una definizione del proprio essere. L’esposizione è presso Palazzo Sarcinelli a Conegliano, fino all’11 giugno 2023. La mostra, a cura di Anne Morin in collaborazione con Tessa Demichel e Daniel Buso, è organizzata da ARTIKA, in sinergia con diChroma Photography e la Città di Conegliano.
Il principio della fotografia
“Un ritratto non è fatto nella macchina fotografica. Ma su entrambi i lati di essa”, così il fotografo Edward Steichen riassumeva il principio della fotografia. Un processo creativo che ha origine dalla visione dell’artista e che si concretizza solo in un secondo tempo nello scatto. Nel caso di Vivian Maier: il suo stile, i suoi autoritratti, hanno origine da una visione artistica al di qua dell’obiettivo fotografico. Per lei fotografare non ha mai significato ‘dare vita’ a immagini stampate e quindi diffuse nel mondo, quanto piuttosto un percorso di definizione della propria identità.
La mostra su Vivian Maier
La mostra ripercorre l’opera della famosa tata-fotografa che, attraverso la fotocamera Rolleiflex e poi con la Leica, trasporta idealmente i visitatori per le strade di New York e Chicago, dove i continui giochi di ombre e riflessi mostrano la presenza-assenza dell’artista che, con i suoi autoritratti, cerca di mettersi in relazione con il mondo circostante.
Vivian Maier fotografò per più di quarant’anni, a partire dai primi anni ’50, pur lavorando come bambinaia a New York e a Chicago. Spese la sua intera vita nel più completo anonimato, fino al 2007, quando il suo corpus di fotografie vide la luce. Un enorme e impressionante mole di lavoro, costituita da oltre 120.000 negativi, film in super 8 e 16mm, diverse registrazioni audio, alcune stampe fotografiche e centinaia di rullini e pellicole non sviluppate. Il suo pervasivo hobby finì per renderla una delle più acclamate rappresentanti della street photography. Gli storici della fotografia l’hanno collocata nella hall of fame, accanto a personalità straordinarie come Diane Arbus, Robert Frank, Helen Levitt e Garry Winogrand.
Vivian Maier e l’autoritratto
L’allestimento di Palazzo Sarcinelli esplora quindi il tema dell’autoritratto di Vivian Maier partendo dai suoi primi lavori degli anni ’50, fino alla fine del Novecento. Un nutrito corpus di opere caratterizzato da grande varietà espressiva e complessità di realizzazione tecnica. Le sue ricerche estetiche si possono ricondurre a tre categorie chiave, che corrispondono alle tre sezioni della mostra.
L’ombra e Vivian Maier
La prima è intitolata SHADOW (ombra). Vivian Maier adottò questa tecnica utilizzando la proiezione della propria silhouette. Si tratta probabilmente delle più sintomatica e riconoscibile tra tutte le tipologie di ricerca formale da lei utilizzate. L’ombra è la forma più vicina alla realtà, è una copia simultanea. È il primo livello di una autorappresentazione, dal momento che impone una presenza senza rivelare nulla di ciò che rappresenta.
La seconda sezione
Attraverso il REFLECTION (riflesso), a cui è dedicata la seconda sezione, l’artista riesce ad aggiungere qualcosa di nuovo alla fotografia, attraverso l’idea di auto-rappresentazione. L’autrice impiega diverse ed elaborate modalità per collocare sé stessa al limite tra il visibile e l’invisibile, il riconoscibile e l’irriconoscibile. I suoi lineamenti sono sfocati, qualcosa si interpone davanti al suo volto, si apre su un fuori campo o si trasforma davanti ai nostri occhi. Il suo volto ci sfugge ma non la certezza della sua presenza nel momento in cui l’immagine viene catturata. Ogni fotografia è di per sé un atto di resistenza alla sua invisibilità.
Vivian Maier e lo specchio
Infine, la sezione dedicata al MIRROR (specchio), un oggetto che appare spesso nelle immagini di Vivian Maier. È frammentato o posto di fronte a un altro specchio oppure posizionato in modo tale che il suo viso sia proiettato su altri specchi, in una cascata infinita. È lo strumento attraverso il quale l’artista affronta il proprio sguardo.
La curatrice
“La scoperta tardiva del lavoro di Vivian Maier, che avrebbe potuto facilmente scomparire o addirittura essere distrutto, è stata quasi una contraddizione. Ha comportato un completo capovolgimento del suo destino, perché grazie a quel ritrovamento, una semplice Vivian Maier, la tata, è riuscita a diventare, postuma, Vivian Maier la fotografa”, scrive Anne Morin nella presentazione della mostra.
Anne Morin, curatrice della mostra, spiega nella sua nota informativa che il materiale rinvenuto da Maloof è enorme, particolarmente interessante è la collezione degli autoritratti in cui Maier si fotografa spesso su superfici riflettenti come le vetrine dei negozi con al collo la sua inseparabile macchina Rolleiflex.
Vivian Maier alla ricerca dell’identità
Diversamente da Narciso, che distrusse sé stesso contemplando e ammirando la sua stessa immagine, l’interesse di Vivian Maier nell’ambito dell’autoritratto fu piuttosto una disperata ricerca dell’identità. Ridotta all’invisibilità, a una sorta di non esistenza, anche a causa della sua particolare condizione sociale, la fotografa diede vita ad una prova inconfutabile della sua presenza in un mondo nel quale sembrava non aver alcuno spazio.
Riflessi del suo volto in uno specchio, o in un infinito regresso, o la sua ombra che si allunga per terra, o il contorno della sua figura: tutti gli autoritratti di Vivian Maier sono una dichiarazione della sua presenza in un luogo specifico, in un tempo specifico. La caratteristica costante che divenne una firma nei suoi autoritratti, allo stesso modo di Lee Friedlander, fu la sua ombra. L’ombra, quella silhouette la cui caratteristica distintiva è l’attaccamento al corpo. Quel duplicato del corpo in negativo, ritagliato dalla realtà, ha l’abilità di rendere presente ciò che è assente. Sebbene l’ombra attesti l’esistenza di ciò a cui si riferisce, essa allo stesso tempo cancella la sua presenza. All’interno di questo dualismo, Vivian Maier si destreggiava con una versione di sé sul confine tra la sparizione e l’apparizione del suo doppio, riconoscendo forse che un autoritratto è “una presenza in terza persona (che) indica la simultaneità di quella presenza e della sua assenza”.
Dal momento che una fotografia, come disse Edouard Boubat, è “qualcosa di strappato dalla vita”; nel caso di Vivian Maier, lei accumulò grandi quantità di autoritratti per configurare la propria identità. Una identità che ha ora preso il suo posto in un eterno presente, costantemente ripetuto e sotto il sigillo della storia.