Iniziamo spiegando il concetto che sta alla base dell’idea: la coltura idroponica al chiuso: di cosa stiamo parlando? La coltivazione indoor in idroponica esiste sin dall’epoca degli Assiri e Babilonesi, ma è stata riscoperta nel 1930 dal Dr. Gericke dell’università di Berkeley, California. Conosciuta anche come idrocoltura, l’idroponica permette la crescita delle piante senza terra, bensì su uno strato di argilla, fibra e perlite, una roccia vulcanica di colore variabile tra il grigio e il rosa, normalmente utilizzata dai professionisti del settore del “verde” in generale, che usano questo materiale naturale ed estremamente poroso in quanto dispone di un’alta capacità assorbente, e dunque può essere utilizzata nella realizzazione di substrati per vasi di piccole, medie e grandi dimensioni. Inoltre, trattandosi di materiale vulcanico a ph neutro, non vi sono pericoli di sovradosaggio o alterazioni del ph della pianta.
Con l’idroponica il vertical farming
II Vertical Farming è la nuova frontiera dell’agricoltura: si parte dal concetto di coltura idroponica indoor, cioè al chiuso, sviluppando superfici di coltivazione non in orizzontale ma in verticale, con il fine di ottimizzare lo spazio. In queste strutture verticali, viene adottata l’idroponica, grazie alla quale le piante crescono in una soluzione nutritiva. Un’idea innovativa che risponde all’esigenza di un maggior risparmio di suolo, soprattutto alla luce delle previsioni di FAO sulla diminuzione della terra coltivabile pro capite a livello globale, che nel 2050 si prevede ridotta a un terzo in comparazione al 1970.
Il comparto dell’idroponica
Riguardo all’intero comparto idroponico, i dati parlano di un settore che svilupperà 19 miliardi di dollari a livello mondiale entro il 2027. Secondo la ricerca di Global Market Insights, “la dimensione del mercato dell’agricoltura verticale ha superato i 4,51 miliardi di dollari nel 2020 e si prevede cresca con un tasso di crescita annuale composto del 23% nei prossimi cinque anni”. Va però sottolineato che i dati a disposizione non sono esclusivi del settore del “vertical farming”, ma comprendono il più ampio mondo delle serre idroponiche ad alta tecnologia.
Kilometro verde e vertical farming
Ammonta a 6 milioni di Euro il finanziamento erogato da ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) a favore di un progetto di realizzazione di uno stabilimento di ‘vertical farming‘ (fattoria verticale) come non se ne sono mai visti prima!
Kilometro Verde, la start up con a capo l’imprenditore Giuseppe Battagliola, ha perfezionato l’operazione a Manerbio (BS) il 7 Febbraio scorso, grazie alla sottoscrizione da parte di Ismea di un aumento di capitale e l’erogazione di un prestito obbligazionario convertibile, per la durata di 8 anni, a fronte di un progetto di investimento di complessivi 19 milioni di Euro.
Lo stabilimento, in fase di realizzazione, sarà la fattoria verticale più grande d’Europa. Nella quale si eserciterà la coltivazione di insalate pronte al consumo. Rispetto alle coltivazioni orticole così come siamo abituati a vederle, le serre verticali permettono, anche se in linea del tutto ancora teorica, di coltivare, grazie ai piani posizionati uno sopra l’altro lungo scaffali, torri o pareti, molte più piante rispetto all’agricoltura in campo aperto. Nel caso della lattuga, per esempio, si stima che la resa potrebbe addirittura essere circa 20 volte superiore. Occupando la superficie che normalmente serve per un orto.
Idroponica e Vertical farming come funziona
La Vertical Farming della quale stiamo parlando è realizzata con un impianto totalmente automatizzato. Che rappresenta quello che può essere considerato, a giusta ragione, il più innovativo tra i sistemi di agricoltura urbana oggi a disposizione. Infatti, questa assoluta novità permette di coltivare in ambiente controllato e senza alcun consumo di terreno. Con la garanzia di non poco conto, di assenza di fitofarmaci e la non meno importantissima riduzione del consumo di acqua: fino al 95%.
Ulteriori vantaggi di questa futuristica concezione dell’agricoltura sono che il primo di questi vantaggi sta nel dire che la produzione è continua, per tutto l’anno, essendo del tutto indifferente alle variazioni climatiche o stagionali. Il secondo indiscutibile vantaggio sta nel fatto di essere potenzialmente realizzabile in prossimità dei centri urbani. Il che rende la produzione di fatto a chilometro zero, con l’apprezzabile risultato che l’impatto dei trasporti è molto vicino allo zero assoluto.
Agricoltura verticale modello perfetto? Assolutamente no!
Attenzione, però, a non farsi trarre in inganno dal desiderio di pensare che questo modello di agricoltura, perfettamente abile come strumento per fronteggiare la crisi ambientale, rappresenti la panacea di tutti i mali dell’ambiente.
Se limitato al settore agricolo, questo è un modello che, sotto molti punti di vista, denuncia difetti e imperfezioni, anche molto rilevanti.
Intanto, si tratta di un metodo estremamente costoso per i produttori e, conseguentemente, anche per i consumatori. Può funzionare riducendo i costi solo per i piccoli ortaggi a foglia verde, le erbe aromatiche e le bacche da frutto. Ma questo metodo di coltivazione è del tutto inadeguato (per il momento) se applicato a cereali e legumi, alimenti fondamentali nella dieta di tutta la popolazione mondiale. Ma il peggio è che, purtroppo, per funzionare a dovere, richiede il consumo di molta energia. Trattandosi di serre costruite su più livelli, uno sopra l’altro, è quasi impossibile che possano essere alimentate sin maggior quantità dalla luce solare.
Attenzione ai costi
Vero che la tecnologia che più si usa per garantire l’indispensabile illuminazione costante (presupposto irrinunciabile se si vuole la massima ottimizzazione dei tempi di crescita e di raccolta dei prodotti) si basa sui LED, i quali però, pur essendo stati enormemente migliorati negli ultimi anni, non consentono che la maggior parte dell’energia luminosa da essi prodotta possa essere utilizzata efficacemente dalle piante per la fotosintesi clorofilliana. Questo svantaggio, sommato alla necessità di rendere automatizzati molti dei processi e di mantenere costanti i parametri vitali per le piante in modo artificiale, fa sì che mediamente il costo energetico per un chilogrammo di prodotto superi abbondantemente la quantità di chilowattora necessari per produrre la stessa quantità in una serra tradizionale. E il problema del consumo energetico diventa ancora più grande. Se le fonti energetiche da cui dipende la produzione della serra sono fonti fossili e, quindi, non rinnovabili.
Dovremo perciò aspettare i futuri risultati della ricerca, prima di poter cantare vittoria!