Continua il viaggio in Ucraina dei nostri collaboratori Luca Paglia e Stefano Pedrina, due giovani padovani laureati in Storia, il primo racconta il secondo fotografa. Siamo alla quinta puntata del loro reportage. È la volta di un ospedale e università coinvolti direttamente nella guerra, tanto da far sentire ai due giovani il clima preciso della trincea. La guerra non è soltanto quella che raccontano i giornali e le televisioni.
A Ternopil
La stazione di Ternopil porta chiaramente i tratti degli edifici eretti in epoca sovietica: un maestoso monolite dalle sfumature gialle e grigie, all’interno spoglio e silenzioso; nonostante vi siano diversi sportelli dove poter acquistare i biglietti, solo in uno lavora un operatore, a luce spenta forse per non attirare l’attenzione ed esser lasciato in pace.
La stessa città, che si presenta più cupa e più fredda rispetto a Leopoli, ha le caratteristiche di un grande polo sviluppatosi durante il comunismo: le tipiche strutture a cinque piani, le chruscevka, costruite per i contadini che decidevano di abbandonare la vita di campagna per arruolarsi nella grande industria, delineano il perimetro che separa la periferia e le fabbriche, qui a maggioranza tessile, dalla zona centrale della città, costituita invece da abitazioni unifamiliari e complessi residenziali monotoni.
All’orizzonte, si stagliano alti palazzi dalle linee moderne che creano un forte contrasto con gli edifici malmessi e le strade dall’asfalto logoro, impastato con fango e resti d’immondizia; di altri, ancora in costruzione, notiamo solamente l’ossatura in cemento. Purè qui, centinaia di militari presiedono le strade, e non mancano di scrutarci con diffidenza mentre camminiamo accanto alle loro postazioni. Fortunatamente, a Ternopil passiamo quasi sempre inosservati, tanto che, scambiandoci per locali, talvolta le persone ci rivolgono persino la parola in ucraino!
La visita all’ospedale
Nel nuovo alloggio, sito tra la periferia e il centro, al settimo piano di un edificio residenziale moderno, iniziamo a prepararci per la visita al centro universitario e, subito dopo, all’ospedale militare. Fondata nel 1955, la National Medical University di Ternopil si distingue per essere tra le università più all’avanguardia d’Ucraina. Gli studenti frequentanti provengono da paesi africani, asiatici e dell’Est Europa ci spiega Katya, professoressa deputata a farci da guida, la quale viene a prelevarci direttamente sotto casa.
Giunti a destinazione, quel che stupisce maggiormente è scoprire che l’università, un grande edificio simile a una villa dalle forme che si rifanno alla tradizione neoclassica, non si occupa solamente d’istruire i suoi allievi. Dopo l’inizio della guerra, data la drammaticità dell’evento, le scarse risorse disponibili e la mancanza di manodopera, alcuni giorni della settimana vengono dedicati alla produzione e all’assemblamento di utensili come candele da lettura, fornelli da campo e kit di primo soccorso che verranno in seguito spediti ai militari al fronte.
Le sale principali, pur lasciando trasparire i raffinati intonaci, sono stipate di scatoloni carichi di merce: coperte termiche, bisturi, marsupi di tutte le dimensioni, farmaci anticoagulanti, carta igienica, lacci emostatici, bendaggi, siringhe e chissà cos’altro, tutto pronto a partire, in qualsiasi momento. È osservando le etichette degli oggetti posti in quell’immenso deposito, un tempo atrio accogliente e luogo di riflessione, scoprendo i luoghi di provenienza delle merci, che prendo consapevolezza dell’immensa portata del fenomeno in corso: paesi americani, europei, africani e asiatici; associazioni di medici, enti pubblici, privati cittadini; un movimento mondiale dedito alla solidarietà che tenta di migliorare le condizioni di chi soffre a causa del conflitto.
Dall’ospedale all’università
Per ovvie ragioni di sicurezza, la maggior parte delle lezioni vengono eseguite in modalità telematica, pratica già sperimentata durante la pandemia, quasi tutte le aule sono quindi deserte. Ivi rimangono solamente gli addetti alla manutenzione e agli apparati gestionali. Se non fosse per un celebre aforisma di Socrate dipinto a mo’ di monito sullo sfondo della scalinata principale e alcune librerie sparse per i piani, non si direbbe di trovarsi all’interno di un’università. Ma bensì in uno stabile pubblico o in qualche azienda in procinto di traslocare altrove. I rintocchi dei nostri passi nei lunghi corridoi preannunciano il nostro arrivo a qualche messo. Che, vedendo dei visitatori, si meraviglia, e timidamente ci porge un cenno in segno di saluto.
Nell’edificio regna un silenzio assorto. Se mancasse la voce dolce e pacata di Katya che ci guida attraverso quell’immensa reggia disabitata e ricolma di merce, non senti il desiderio di fermarti a lungo. Fortunatamente, non sembra vi sia molto da visitare. Dopo una breve pausa, in cui abbiamo il tempo di conoscere uno studente addetto allo “smistamento delle merci” e una seconda professoressa giunta a porci il saluto del rettore, ci dirigiamo verso il centro medico militare, distante solo due chilometri dalla nostra posizione.
Ospedale rifugio per i feriti
Già all’entrata uno spettacolo struggente, composto di soldati (o civili?) mutilati costretti a trascinarsi sulle grucce o in carrozzella, ci si staglia di fronte come una verità amara scaraventata in faccia a un bambino. Costoro, che nell’immensa sofferenza dell’inabilità acquisita sopravvivono, sono la prova di come la guerra riduce gli uomini che la combattono in prima persona. Dopo esserci presentati, veniamo accolti da un’infermiera che ci conduce nei reparti. Se la tensione di vedere atrocità come un volto mutilato o un coetaneo a brandelli viene quasi subito messa alla prova, riuscendo tuttavia a resistervi, è certo l’odore di carni morte, di gangrena, ad appiccicarsi alle narici.
Vedere con i nostri occhi la guerra
Un viaggio di quasi un’ora durante il quale le storie di guerra dei militi suscitano indicibili emozioni e mi riducono, a poco a poco, in silenzio, incantato dal sentir i racconti di chi ha scelto di combattere, di mettere a repentaglio la vita per la patria e per i suoi figli. Ci viene chiesto di non scattare fotografie ai soldati ricoverati, di cui non conosciamo il numero ufficiale. Ma, non appena usciamo dall’istituto, m’accorgo che avrei voluto conservare un ricordo più nitido di quegli uomini coraggiosi e semplici. Un’immagine che ritragga nella sua crudezza un barlume di verità e di coerenza. Virtù dimenticate ormai da tempo nel nostro paese, rimpiazzate da falsi miti che, certo, alimentano l’audience televisivo e le vendite di prodotti. Ma non potranno mai essere esempio di valore per la collettività.