Di recente, il critico d’arte Vincenzo Trione è tornato su un argomento che balza periodicamente all’attenzione dei media e finirà, prima o poi, per affacciarsi un giorno alla porta del Palazzo, classico bersaglio degli scritti corsari di Pasolini. Si tratta dei beni artistici conservati nei sotterranei dei musei, decine di migliaia di “pezzi” di epoche lontane e vicine accatastati in attesa di restauri o di vedere la luce cioè esposti all’ammirazione dei cittadini: opere in prevalenza di pittura e di scultura.
Trione parla di “tesoro nascosto”, ma forse si può definirlo come un tesoro sotterraneo, un bene culturale sommerso, in carico a tutti i musei, in particolare i più grandi. Una quantità straordinaria di “cose” rare private della visibilità, ignote al pubblico: materiali visibili solo agli studiosi e ai dirigenti. Le opere immagazzinate – e salvate dall’oblio e dal degrado, questo è chiaro – potrebbero riempire altri musei creati ex novo: non si tratta, comunque, di materiali inerti, perché sono protetti, accuditi, catalogati, restaurati.
L’Anonimo ricorda, a proposito, una specie di progetto per l’utilizzo sociale delle opere d’arte “sotterranee”, un’idea fantasiosa mai realizzata, ma pensata seriamente da un gruppetto di amici. Si trattava di affidare a istituzioni private qualche opera immagazzinata perché fosse esposta in luoghi frequentati “dalla gente”, come uffici o sedi di rappresentanza. Ricordo qualche slogan: “liberare l’arte”, “portare ignorati capolavori a contatto con la vita”, “portare alla luce i beni culturali tenuti nell’ombra”.
Ingenuità di intellettuali, diciamo oggi, che prevedevano il coinvolgimento dei prefetti, degli assessorati comunali alla cultura, delle Soprintendenze e della Guardia di Finanza a garanzia di quelle “opere minori” il cui valore, però, è di far parte del tessuto di un patrimonio condiviso e “protetto” dalla Costituzione.
Dov’è il focolare
Qualcuno direbbe che oggi – rigorosamente oggi – il focolare è il televisore, con le persone intorno e lo schermo che emette una luce perlacea piena di figure e crea un’atmosfera di intimità… Questo ormai si sa, perché lo ha fatto Renzo Arbore in una sua canzone. Ma io parlo di una parola perduta, il focolare domestico, che si accendeva nelle case più o meno rustiche d’una volta, e faceva tutt’uno con il camino: per chi oggi non lo sapesse, era uno stretto ripiano di pietra su cui, in cucina, si accendeva il fuoco per preparare i pasti, e d’inverno anche per riscaldarsi, in coppia con la stufa.
Dietro e dentro questa parola, che ho colto al volo nei giorni scorsi durante un documentario tv, c’è tanto di fiabesco, di civiltà contadina, di tradizione, vi risuonavano le voci narranti di tante favole, mentre intorno a quel focherello la povertà era come il mantello di Arlecchino.
La parola focolare aveva più di un significato, e ne ho trovate due nel Dizionario etimologico della lingua italiana di Cortelazzo e Zolli (Bologna 1979): focolare uguale a casa e famiglia; ma anche, per estensione, centro di diffusione e irradiamento di idee, per esempio, o di dottrine politiche ecc.
Fino a qualche generazione fa, come posso testimoniare, il focolare c’era in tutte le famiglie, nei paesi di tutte le regioni, nelle case rurali e nelle abitazioni della borghesia come della nobiltà; e, naturalmente, variavano le tipologie, dal grezzo al raffinato. Dei nostri emigranti si diceva che “lasciavano il focolare” quando si chiudevano alle spalle, per un’ultima volta, la porta di casa. Oggi, dovrebbero portare la tv-focolare come bagaglio appresso.
Dice il poeta: “Nel focolare dei vecchi – custodi della memoria – non brucia più legna, ma arde comunque un fuoco sentimentale”.
Luoghi del cuore: una sorpresa
Il referendum del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano su quali siano per i cittadini dello Stivale i luoghi più amati o comunque fascinosi, si è concluso nelle scorse settimane con un risultato abbastanza curioso se non proprio sorprendente. Il Fai, come forse si sa, è proprietario di luoghi monumentali che riceve in donazione e se ne cura, spesso acquistandoli e salvandoli dal morso del tempo. Sono moltissimi e fra loro diversi i “luoghi del cuore” segnalati da migliaia di italiani: ambienti costruiti dagli uomini, come palazzi, chiese, giardini, fontane ecc., o ambienti conservati allo stato naturale.
La sorpresa è che ai primi tre posti, cioè i più votati, si sono classificate tre chiese, tre luoghi custodi del sacro in una società secolarizzata, con scarsa partecipazione al culto e, in parallelo, con una caduta delle vocazioni al sacerdozio. Un segno dei tempi? Una forma di resistenza della religiosità, di un sentimento nascosto nell’intimo e proiettato sui luoghi che da secoli sono un presidio della devozione popolare?
Difficile rispondere, perché si sa: “al cuor non si comanda…”
Un frammento
(poesia)
XLVIII
Sono una voce a volte
un riso doloroso
con tanta pena dentro
e tanto amore
che dono agli altri
non posso farne a meno
ma ora so
dev’esserci anche questo
perché anche il dolore è una conquista.
Dianella Selvatico Estense
Da Il breve cerchio (prefazione di Mario Luzi)
All’insegna del pesce d’oro, Milano 1988