Continua il viaggio in Ucraina dei nostri collaboratori Luca Paglia e Stefano Pedrina, due giovani padovani laureati in Storia, il primo racconta il secondo fotografa. Siamo alla quarta puntata del loro reportage. Questa volta i due prendono il treno per spostarsi da Leopoli a Ternopil sulla strada per la capitale Kiev. La guerra non è soltanto un rumore di fondo
In treno da Leopoli
Tra i più fulgidi esempi d’Art Nouveau presenti in Ucraina, la stazione ferroviaria di Leopoli venne costruita nei primi anni del Novecento ‒ durante l’impero Austro-Ungarico ‒ con l’intento di renderla il principale punto di raccolta di uomini e merci della Galizia, regione storica di cui L’viv fu la capitale. Ancora oggi, nonostante sia trascorso più di un secolo dall’inaugurazione, avvenuta nel 1904, rappresenta un punto di transito cruciale: le principali linee che si intersecano in città provengono direttamente dal cuore dell’Europa e attraversano il paese fino al confine con la Russia, verso le aree dove sono in corso i combattimenti. Un canale linfatico che rifornisce gli eserciti degli approvvigionamenti necessari per la resistenza e mantiene vegeta la parte ancora sana del paese.
Un grande edificio
Oltrepassata la grande porta dell’edificio centrale, acquistare un biglietto non è cosa semplice; nemmeno la cassiera impiegata nella “Cassa Internazionale” parla inglese, ma sbiascicando qualche parola accompagnata da una mimica facciale efficace riusciamo a farci intendere. Dobbiamo dirigerci ad Est usando la stessa linea usata dai militari per recarsi al fronte; la destinazione è Ternopil, città industriale che vanta uno dei centri medici più all’avanguardia dell’intero paese e un polo universitario internazionale. Negli scorsi giorni siamo riusciti a metterci in contatto con i principali responsabili di tali strutture, i quali si sono resi disponibili a loro volta ad accoglierci.
Dal binario al treno
Acquistato il biglietto, e giunti al binario indicato, iniziamo ad osservare con maggiore attenzione l’architettura interna della stazione, che in parte ricorda la nostra Milano Centrale: le enormi arcate di ferro e vetro che coprono il luogo di partenza e di arrivo dei treni dalle intemperie crea un forte rimbombo, sicché, pur non vedendoli, si percepisce il costante andirivieni di uomini, merci e mezzi che vi transitano al di sotto. La sensazione è di trovarsi all’interno di un’enorme pancia gonfia e gorgogliante di un leviatano pronto a inabissarsi.
Anche qui vi sono i militari, alcuni con delle protesi a braccia e gambe, che salgono e scendono dai vagoni in silenzio, uno di loro porta un paio di scarpe da bowling colorate attaccate allo zaino. Accanto a noi, notiamo una conduttrice spagnola e la sua troupe che non smette di registrare da varie angolazioni la stazione, sono i primi europei che incontriamo da quando abbiamo oltrepassato il confine a Zàhony; nell’area è vietato fumare, ma a nessuno importa sul serio.
In treno direzione Ternopil
I treni dedicati ai passeggeri sono moderni e puliti, hanno tutti i posti numerati, coloro che vi salgono rispettano le regole e i controllori si presentano gentili e disponibili: «Se la vostra destinazione è Ternopil, dovrete scendere alla seconda fermata, all’incirca tra un paio d’ore. Grazie e fate buon viaggio!». Non appena il treno riparte, e lentamente iniziamo ad allontanarci dall’europea Leopoli, il paesaggio muta rapidamente; per la prima volta illuminata, notiamo l’altra faccia dell’Ucraina. Il profilo della stazione sbiadisce e, al suo posto, un’immensa campagna ingiallita dall’inverno e un cielo finalmente azzurro si aprono a perdita d’occhio all’orizzonte: l’Ucraina rurale, con le casette per gli animali costruite con le pareti e i tetti di paglia, con fossati lunghi e irregolari in cui l’acqua scorre libera, talvolta trasbordando e allagando ampi tratti di terreno.
Il fango è ovunque, il ghiaccio solo nelle zone rivolte tramontana e l’ombra del treno che si restringe e allunga nella superfice piatta crea un gioco di prospettive tali che talvolta fanno apparire i vagoni enormi, altre volte piccoli e stretti. Un relitto arrugginito dell’epoca sovietica, un articolato sistema di antenne-torri costruito negli anni Settanta per disturbare le comunicazioni radio degli alleati, copre altissimo parte dell’orizzonte, enormi silos per il grano, principale ricchezza della nazione, si intervallano equamente per tutto il percorso. E ancora, stazioni abbandonate ricoperte d’immagini scolorite inneggianti la rivoluzione sovietica, accampamenti militari che presiedono i passaggi a livello maggiori, distese di rifiuti e giacigli di fortuna abbandonati dai profughi in fuga. Immagini che scorrono rapidamente, con lo stesso incalzante ritmo delle ruote del treno sulle rotaie: un leggero galoppo che rilassa la mente e induce a riflettere su quanto sta accadendo.
Il rumore non fa sparire quello della guerra
La tensione sociale, la sofferenza condivisa, l’amore per gli eroi, la propaganda continua, l’odio per il nemico, i bombardamenti: in Europa abbiamo completamente dimenticato le conseguenze che comporta l’entrare in guerra. Evento che, nella sua tragicità, rivela al mondo l’anima dei popoli che vi partecipano e in cui le qualità del singolo individuo si elevano al servizio della comunità. Pur essendo arrivato da pochi giorni, mi appare chiaro che le persone che hanno scelto di non abbandonare il paese siano strenuamente impegnate a svolgere al meglio le loro mansioni.
È evidente la presenza di una consapevolezza collettiva, la coscienza di essere un popolo, la volontà di dimostrare l’appartenenza a una cultura differente da quella russa, troppe volte paragonata o confusa con quella ucraina. Considerando poi i dibattici pubblici italiani, per lo più inconcludenti, e tentando di portare un minimo d’orientamento nella dialettica, che si divide principalmente nell’essere a favore o contro l’operato della Nato, ci si dimentica (quai sempre) di citare il desiderio degli Ucraini, i quali rappresentano indiscutibilmente la parte che più subisce le sorti del conflitto.
Quel treno che ricorda una famosa locomotiva…
Un dato di fatto è che tutte le persone con cui abbiamo parlato finora siano disposte a combattere per far valere un proprio diritto, ovvero di entrare nell’Unione Europea e nella Nato, avvicinandosi culturalmente all’occidente e abbandonando per sempre un retaggio oramai superfluo, antiquato, un ideale che, come l’enorme antenna arrugginita, è ormai prossimo a sgretolarsi, a perdersi nel vento. All’arrivo in stazione, il treno si ferma dolcemente, prolungando il fischio causato dall’attrito dei freni. Discesi i passeggeri, riparte la sua lunga cavalcata verso Kiev e il fronte orientale.