Ci incontriamo in un bar di fronte ad un caffè, con Sandro Baldan, figlio di Luigi Baldan, che da anni porta avanti il racconto del padre, della sua esperienza in guerra, della detenzione nei campi nazisti e il suo sostegno e aiuto concreto ad un gruppo di ragazze ebree.
Sandro parla con orgoglio del padre, mancato nel 2017. Da tempo premeva perché il genitore mettesse “in bella copia”, i suoi appunti, che aveva iniziato a trascrivere già dal 1951. Il manoscritto viene pubblicato con il titolo “LOTTA PER SOPRAVVIVERE” Ed. Cafoscarina quando Luigi ha già 90 anni, da lì inizia il suo continuo lavoro di divulgazione della sua esperienza, che fu una lotta personale per la sopravvivenza, ma anche di aiuto concreto ad un gruppo di ebree.
Come era Luigi Baldan da bambino e da ragazzo, come era composta la sua famiglia e che lavoro svolgeva prima della guerra?
“Quella di mio padre era una famiglia di contadini, era nato nel 1917, era il più piccolo 5 fratelli, ebbe modo comunque di studiare fino alla quinta elementare. La sua infanzia e la prima adolescenza, sono segnate dalla morte dell’amata sorellina all’età di otto anni per pertosse: la bambina venne isolata e le mancarono le cure e la presenza della famiglia. La madre ne soffrì moltissimo e la sua crisi fu aggravata non molto tempo dopo dalla morte del marito. Luigi aveva 12 anni. Diventa perciò subito grande, non rimane a lavorare la terra con i fratelli, ma va in fabbrica, in officina, dove imparerà un mestiere che gli sarà utile nelle peripezie che vivrà durante il conflitto.
Il suo servizio militare è durato sei anni, era motorista della Marina Militare. In questi anni ha scritto molte lettere alla madre, un modo per esserle vicina. La madre è morta il 25 luglio del 1943, il giorno della caduta del fascismo: Luigi si trovava a Sebenico in Jugoslavia, gli fu comunicato con un telegramma, ma era impossibile rientrare in Italia per il funerale. Per lui fu una sofferenza molto forte, in quanto ripensava spesso alla sua mamma e a quanto soffrì per la morte della sorellina, non c’era giorno che la mamma non guardasse in direzione del cimitero dove era sepolta la piccola”.
Cosa accade dopo l’Armistizio dell’8 settembre, tra i tedeschi che ritenevano gli italiani traditori e i partigiani jugoslavi che li vedevano come invasori?
“Mio padre decise a quel punto, non fidandosi più di nessuno, di scappare. Era un giovane abituato a cavarsela, quando occorreva anche con l’astuzia. Forgiato sin da bambino da una vita in officina, riuscì con determinazione a procurarsi un motoscafo, due fusti di benzina, una mitragliatrice e una bomba mano, un albero, in caso di avaria su cui issare eventuali vele per continuare la fuga dalla Jugoslavia verso le coste italiane, diretto ad Ancona. Purtroppo venne catturato dai tedeschi e non dalla Repubblica Sociale alla quale non accetta di collaborare. Venne trasportato sino a Bad Orb, in Germania, prima con un’interminabile e massacrante marcia a piedi nell’entroterra jugoslavo, poi con i carri vagoni bestiame.
Anche in quel caso tenta una fuga, in quanto era in contatto con un gruppo di partigiani ed in particolare con una ragazza che faceva da tramite, ma non riuscì nell’intento. Racconta però con dovizia di particolari nel suo libro di memorie, le condizioni disumane in cui vennero trasportati nei vagoni; era difficile convivere, in 10 giorni di trasporto; c’era chi si lasciava morire, chi impazziva dalla disperazione; si perdeva ogni forma di umanità, le condizioni igieniche erano disastrose e il rischio di malattie letali sempre in agguato. Una volta arrivati in Germania fu chiesto ancora di collaborare con la Repubblica Sociale, cosa che Luigi non accettò nuovamente e fu destinato a lavori agricoli”.
Successivamente suo padre viene trasferito per lavorare in una industria bellica tedesca: cosa raccontò di quel periodo?
“Mio padre, nel novembre 1943, viene trasferito a Francoforte sul Meno, in Germania, nel lager in località Heddernheim, ove viene impiegato come operaio all’interno delle fabbriche tedesche della V.D.M. (Vereinigte Deutsche Metalwerke), un’industria che fabbricava pezzi meccanici aerei. È testimone della dura vita nelle fredde baracche, comincia a capire la crudeltà a cui gli ebrei erano sottoposti. La domenica dopo il lavoro, veniva portato con i suoi compagni a Francoforte per recuperare i cadaveri dei bombardamenti. Effettua coraggiosi sabotaggi nel materiale bellico prodotto nel campo di concentramento di Francoforte sul Meno- Heddernheim, all’insaputa dei tedeschi.
Allo stesso tempi con un foro creato sulla rete invisibile per la conformità, riusciva ad alontanarsi per cercare cibo, anche zucchero. Qualche volta per sé e per i compagni, a volte mangiava il pastone che veniva dato ai maiali delle fattorie confinanti. Luigi era però un tipo schivo, non raccontava delle sue uscite, temeva sempre che qualcuno potesse denunciarlo ai tedeschi. Proprio in occasione di una delle sue uscite notturne fu intercettato da un ragazzino di 12 anni che gli puntò la pistola alla testa. Fu catturato e posto sotto processo. La sua fortuna fu che si era creata una situazione di confusione all’interno del campo. Visto l’andamento della guerra che i tedeschi non riuscivano più a dominare. Nel caos, fuggì in un’altra baracca, ma intanto era arrivato l’ordine che tutti i prigionieri venissero immediatamente trasferiti in Polonia”.
Ed è il Polonia che Luigi Baldan ha un contatto diretto con le ragazze ebree?
Sì, in questo campo di lavoro, c’erano circa 300 ragazze, di età compresa tra i 15 e 20 anni. Erano in condizioni di salute precaria, vestivano con la divisa a righe e la stella gialla. Per necessità dell’industria bellica provenivano da Auschwitz, utilizzate come forza lavoro. Si era nell’aprile 1944 e venne trasferito nel campo di lavoro nazista di Sackisch Bad Kudowa in Polonia (campo collegato a quello principale di Gross-Rosen) per lavorare come meccanico tornitore nelle stesse industrie V.D.M. Qui, continuava ad uscire e a recuperare rubando mele e patate all’esterno del campo. Si prodigava per aiutare e sfamare, rischiando la propria vita, proprio queste ragazze ebree. Riuscì a difendere la loro vita dai soprusi dei nazisti, intercedendo per la loro salvezza. Una ragazza stava per essere uccisa perché aveva rotto un macchinario, ma grazie all’intercessione di mio padre che si offrì di riararlo immediatamente venne risparmiata”.
Oltre al cibo come aiutava Luigi Baldan queste donne ridotte allo stremo?
“Mio padre le informava continuamente, rischiando severe punizioni, in particolare sull’andamento della guerra. Per aiutarle a sopportare la fatica del lavoro e dare una speranza di salvezza. Forniva loro, di nascosto dai tedeschi, degli stracci in lana per ripararsi la testa dal freddo. Talvolta corrompeva le spietate guardiane tedesche. Incaricava dei suoi amici, un italiano di nome Bruno Pasqualin e un cecoslovacco di nome Stanislav Coufal, addetti alla manutenzione, a portare loro periodicamente del cibo che si era procurato dai polacchi.
Effettuava ancora più decisi e mirati sabotaggi al materiale bellico prodotto nelle fabbriche e dei macchinari del campo di Sackisch-Kudowa, in Polonia. Nell’aprile 1945 è fuggito da solo dal campo in direzione della Cecoslovacchia correndo a tutto fiato per 10 chilometri, nel buio della notte. Ha vissuto molte avventure e peripezie per scampare a situazioni sempre più complesse. Perché la guerra era giunta alla conclusione, con la sconfitta dei tedeschi che però continuavano la loro continua sanguinosa azione. Per tutti dopo la liberazione seguì il ritorno a casa con un interminabile viaggio in treno; Luigi arrivò in Italia nel luglio 1945”.
Suo padre Luigi Baldan ha lasciato una grande testimonianza, non solo storica, ma anche umana…
“A 90 anni, nel marzo 2007, mio padre pubblicò il libro “Luigi Baldan Lotta per sopravvivere – La mia resistenza non armata contro il nazifascismo”. È l’unica testimonianza italiana di quanto è accaduto nel campo nazista di Sackisch-Kudowa, in Polonia. È uno dei pochi casi in cui un prigioniero dei lager nazisti, già di per sé disperato e affamato, riuscì a trovare la forza e la sensibilità di aiutare, a rischio della propria vita, le più deboli ragazze ebree. Sono piccole storie di solidarietà che meritano di essere valorizzate, prima che sia troppo tardi, per il loro alto valore umano.
Il suo testo è stato tradotto in francese. Grazie alla figlia di una donna ebrea deportata proprio nel lager di Sackisch-Kudowa, ma anche in inglese e ceco. Alcune copie depositate presso lo Yad Vashem di Gerusalemme, al Museo dell’Olocausto di Washington e al Museo del Lager di Gross Rosen – Rogoznica in Polonia”.
Che eredità le ha lasciato suo padre?
“Sono sempre stato orgoglioso di mio padre, per il coraggio, la forza e la determinazione. Fu per me un padre un po’ severo, ma di grande generosità e di slancio umano, lo ricordo giovane, nelle foto da ragazzo, scelto anche nella Mostra del Cinema di Venezia, in cui era in Marina per accompagnare sul red carpet la famosa Alida Valli. Un uomo pieno di risorse, di cui vado fiero. Quando ero ragazzo insisteva affinché trascrivessi il suo manoscritto, non era facile per chi tornava dopo l’orrore raccontare.
Tutti volevano dimenticare, fu così per decenni, ma lui invece fece bene a trascrivere subito. Proprio per evitare che i ricordi si sbadissero e la memoria cancellasse le molteplici atrocità. Negli ultimi anni raccontava ai ragazzi delle scuole la sua esperienza, era importante per lui, uomo che aveva rischiato la vita per gli altri, visto che avrebbe potuto pensare solo alla sua già difficile situazione. Mano ritrovate a vivere”
Luigi è stato insignito dal Ministero della Giustizia della “Croce del merito di Guerra” e di “Volontario delle Libertà”. Sandro mi lascia una copia del libro di suo padre: “PER NON DIMENTICARE” dice la dedica.