Il film è famoso, lo hanno visto in tutto il mondo, e fotografava un’Italia che ancora si leccava le ferite della guerra: i poveri, allora, erano tanti e una bicicletta (rubata e venduta) poteva garantirgli per qualche tempo il cibo e forse anche le scarpe per un figlio. La poesia del neorealismo, nello specifico di autori come De Sica e Zavattini, non si dimentica. Ma ecco un fatto di oggi che ci richiama a quella povertà remota: un’amica di Mestre ci ha raccontato che le hanno rubato l’ennesima bicicletta, cioè la quinta negli ultimi due anni! (Una l’hanno rubata anche a me). La differenza fra questi ladri di biciclette e quelli del dopoguerra è che i furti non sono impulsivi ma organizzati, e le bici trafugate vanno ad alimentare un mercato più o meno clandestino.
Tuttavia, oggi nuove povertà sussistono nella nostra società in cui si vivono vite parallele: una vita che arranca sul binario del disagio, l’altra che scivola libera su quello della sicurezza. Le statistiche impietose ci dicono che i poveri in Italia sono 4 milioni. Dopo pandemia e guerra, ecco un’altra parola che ci invischia, ci mette in allerta e può far paura: la povertà abita qui, nel cuore di una società affluent, anzi lo fa al plurale.
Perché ci sono povertà diverse, quelle visibili e quelle invisibili come possiamo leggere nel recente libro di Roberto Battiston L’alfabeto della natura (Rizzoli). Quelle visibili o materiali “per quanto devastanti possono essere misurate, affrontate, qualche volta risolte. Quelle invisibili possono essere altrettanto invalidanti e causare effetti a livello individuale e sociale tanto gravi da determinare il declino di un Paese”. L’autore pensa, fra il tanto altro, al negazionismo nelle due versioni: climatico e vaccinale.
Si aggiunga che l’ignoranza, che è un tipo di povertà invisibile, come del resto l’analfabetismo scientifico su cui lo scrittore insiste, “è la peggiore schiavitù”. Un quadro desolante, che richiede un riscatto non solo culturale. I moderni ladri di biciclette fanno parte del quadro.
Una parola oscurata
C’è una parola che non esce facilmente dal Palazzo pasoliniano e dalla schiera dei palazzetti che puntellano la filiera del potere, ma nemmeno si sente con frequenza sulla bocca della gente: il fatto è che ci lega la lingua, rimane in gola come un boccone amaro: sacrifici. Sono già cominciati, se vogliamo essere sinceri, e sono al plurale perché la parola allude a una quantità e si converte in rinunce, parola meno drammatica, forse, ma in sostanza la crisi energetica non chiede il permesso o l’Isee… Già ci sentiamo limitati nel diritto agli acquisti e ai consumi collegati, già sentiamo di avere meno libertà di azione nel tran tran quotidiano…
L’anonimo di queste pagine, come altri della stessa età e della stessa terra d’origine (la piccola patria incorniciata da due fiumi), conosce il risparmio -virtù, non sacrificio – ma, in parallelo, anche la scarsità di mezzi che significa proprio quella parola oscurata: penuria di certi beni come oggi il gas e la luce e, ieri, la carne e addirittura il pane. Si accettava, per necessità o per fatalismo.
Viviamo un momento strano nella sua eccezionalità: l’incrocio fra due calamità come la pandemia di Covid e l’aggressione armata dei russi al popolo ucraino: questo è, e resterà un tempo, di sacrifici individuali e collettivi.
Che fare? La difesa è, incredibilmente, l’arma che disarma il male, nel senso che si riesce a vivere e far vivere senza uccidere in noi la speranza: vivere, puntualizza il saggio, è già un combattere a viso aperto la propria battaglia.
Prima del lungo viaggio
Dalla cronaca: a Venezia, un impresario di pompe funebri ha reclamizzato una serie di sconti per chi voglia ordinare i funerali alla sua azienda prima della chiusura. Questo esito “in saldo” di un’attività sociale e profondamente civile qual è un funerale mette tristezza e preoccupazione, anche perché, ha detto il titolare, “non c’è più rispetto per la morte”. Quella che si chiamava la cura dei defunti si è inesorabilmente trasformata in un rituale frettoloso e asettico, e fa ormai parte sempre più dei ricordi, quando c’era la veglia nella casa del defunto con accompagnamento di preghiere e, in alternanza, con la rievocazione delle sue gesta: si celebrava con semplicità la sua “eredità emotiva”.
La vita tornava almeno per poco nel calore delle parole e nel turbine dei sentimenti. I bambini conoscevano la morte, la vedevano nelle persone di famiglia e qualcuno doveva imparare il rechiemeterna, cioè il Requiem aeternam tradotto nel dialetto dei nonni. Oggi si velocizza, si semplifica.
Eppure c’è qualcosa di antico che sopravvive.
Proprio in Veneto ci sono alcune imprese funebri che hanno aperto una Casa funeraria, come per esempio a Polesella (Rovigo), dove “rendere dignitoso il momento del commiato nel rispetto di ogni cultura religiosa o laica” e dove le famiglie colpite dal lutto possono “ricevere in assoluta privacy l’affetto e il cordoglio di amici e parenti”. La pietas non è dunque morta, e ci accompagna nel momento in cui dobbiamo iniziare il “lungo viaggio.”
Fuochi di novembre
(poesia)
Bruciano della gramigna
nei campi
un’allegra fiamma suscitano
e un fumo brontolone.
La bianca nebbia si rifugia
fra le gaggìe
ma il fumo lento si avvicina
non la lascia stare.
I ragazzi corrono attorno
al fuoco
con le mani nelle mani,
smemorati,
come se avessero bevuto
del vino.
Per lungo tempo si ricorderanno
con gioia
dei fuochi accesi in novembre
al limitare del campo.
Attilio Bertolucci
Da Fuochi in novembre, 1934