I violenti non sono tutti all’inferno (Dante ne ha fatto il pieno nel settimo cerchio). “Magari ci fossimo liberati di questa categoria dis-umana!”, ragiona il cosiddetto uomo della strada. Invece, una serie impressionante di delitti di ogni tipo – guerra inclusa – sta occupando il nostro spazio di convivenza civile, umana e naturale: dal femminicidio all’inquinamento volontario dell’aria che respiriamo e dell’acqua, proprio la vita è violentata con lugubre fantasia: cos’è la fatwa contro la libertà di pensiero se non violenza contro l’umanità? Che cos’è la mafia annidata nelle fibre del nostro Paese? Che cos’è l’odio razziale e ideologico?
Quella da uomo a uomo è stata definita violenza caìna (da Caino primo fratricida) e percorre la storia. Ma oggi c’è qualcosa di nuovo sotto il cielo: sta aumentando l’orrore, perché si uccide scatenando una ferocia che porta alla distruzione della vittima, allo smembramento del suo corpo gettato via come scarto di macelleria! Episodi recenti documentano questa follia del massacro, questa brutalità senza limiti.
“La violenza” scriveva il filosofo Benedetto Croce “non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice”. Da quel dì, nell’altro secolo, questa “debolezza” ha travolto ogni ostacolo, primo fra tutti la sacralità dei corpi, il rispetto come scudo all’integrità del corpo, come freno alla distruzione della creatura Homo: nemmeno la morte sembra oggi soddisfare la sete di sangue di certi uomini e di certe donne di questo secolo che dovrebbe rifulgere di razionalità e di amore. Ci devono mettere l’abiezione….
Un disincantato osservatore della nostra umanità “che si ostina a celebrare l’idolo della violenza”, il cardinale Gianfranco Ravasi, commentava: “Lungo, purtroppo, è ancora il cammino della redenzione dalla violenza, lungo quanto la storia” (Le parole del mattino, Mondadori 2011).
Ritorno alle fiabe
Gli anonimi creatori di fiabe non sapevano probabilmente leggere né scrivere, però erano formidabili narratori e le loro voci echeggiavano nelle piazze durante il mercato (cantastorie) o nelle stalle in inverno (il filò della tradizione veneta). Oggi quel patrimonio di narrazioni fantastiche è scomparso, inghiottito dal malinconico tramonto della civiltà contadina e della cultura orale.
Eppure…
Eppure, ecco, nel foglio di notizie dell’Istituto Rezzara di Vicenza troviamo una serie di articoli all’insegna di “Fiabe e cultura veneta” che insieme definiscono le antiche fiabe come “memoria della fantasia e dell’antica saggezza popolare”.
Ma non si tratta soltanto di un dotto excursus nel mondo in cui il pensiero si esprimeva con la parola parlata, una narrazione che poi fu esplorata da persone di cultura alta (raccoglitori di fiabe e autori in proprio).
Il fatto è che oggi, in piena età tecnologica, c’è stata, in provincia di Vicenza, l’iniziativa concreta di letture, analisi e perfino riscrittura di fiabe venete – invenzioni alimentate dalla tradizione, quasi un tributo all’immaginario locale, o meglio una sfida. È come aver resuscitato una ricchezza poetica che si credeva perduta, un ritorno alle fiabe: perché no?
Noi e gli idoli
Il tempo passa e ripassa, porta via con sé le mode e, anche, qualche filosofia: briciole di cultura vissuta e sfruttata. Ma c’è qualcosa che persiste e ha radici profonde, un vizio umanissimo che si perpetua sotto il cielo: l’idolatria. Siamo esseri idolatri, e la scienza o la religione non ci liberano da questa passione. Una volta si parlava di idola tribus che, nel latino di Bacone, alludevano ai pregiudizi della gente.
Ma ancora più indietro nei secoli c’erano gli idoli di pietra, o di legno, di roccia e perfino di acqua. Perché la loro natura era fisica, e vivevano perché visibili, non importa se erano il frutto psicologico di ignoranza e di superstizione; e non c’era il velame del mistero ad avvolgerli. Erano comunque sterili: non avevano il dono della creazione.
E quelli di oggi? Sono di carne, sono umani, ma sempre di idoli si tratta, e vivono (e sopravvivono anche in pieno clima tecnologico) perché hanno tanti adoratori, diciamo pure milioni di fedeli….
In concreto: come fosse una Barbie a dimensione umana, ecco Diana Spencer, regina mancata, fragile e bella: i suoi adoratori inglesi, a venticinque anni dalla tragica morte, le hanno dedicato un tributo mediatico clamoroso, nutrito – va detto – a un sentimento autentico quanto complesso.
Non troppo diverso quello che vediamo ritualmente ogni anno a Venezia quando altri idoli scendono al Lido per offrirsi al rito dell’attesa davanti al tappeto rosso e ricevere l’osanna dei loro adoratori (volevo dire fan). Divinità effimere, divi e dive, numi che vanno per strada, persone divinizzate su altari propri della nostra civiltà. Il massimo del fenomeno, a ben pensarci, è fare di noi stessi un idolo, con le conseguenze che si possono solo immaginare.
Uccelli
(poesia)
Il vento è un’aspra voce che ammonisce
per noi stuolo che a volte trova pace
e asilo sopra questi rami secchi.
E la schiera ripiglia il triste volo,
migra nel cuore dei monti, viola
scavato nel viola inesauribile,
miniera senza fondo dello spazio.
Il volo è lento, penetra a fatica
nell’azzurro che s’apre oltre l’azzurro,
nel tempo ch’è di là dal tempo; alcuni
mandano grida acute che precipitano
e nessuna parete ripercuote.
Che ci somiglia è il vuoto delle cime
nell’ora – quasi non si può pensare
né dire – quando su steli invisibili
tutt’intorno una primavera strana
fiorisce in nuvole rade che il vento
pasce in un cielo o umido o bruciato
e la sorte della giornata è varia,
la grandine, la pioggia, la schiarita.
Mario Luzi
Dall’Antologia popolare di poeti del Novecento,
Vallecchi 1967