Nel secolo scorso, come in tutti i vecchi giornali, anche al Gazzettino di Venezia le tradizioni del giornalismo venivano sempre rispettate. Magari non con lo stile del Circolo della Vela tanto caro a D’Annunzio, ma seguendo sempre con grande attenzione le regole della casa. Che del resto erano semplicissime. Fino al 20 settembre del 1958, per esempio, tra le otto e le otto e trenta di sera (prima del grande assalto quotidiano delle notizie romane), i colleghi della redazione centrale si fermavano per una pausa più che meritata.
Il rito del giornalismo
Era allora, come si favoleggiava tra i più anziani, che si ripeteva sempre lo stesso rito: i giornalisti, giovani e vecchi, lasciavano le loro scrivanie e sciamavano insieme sotto Ca’ Faccanon. Molti, la cosiddetta corrente di destra, giravano verso campo San Salvador; altri – ma niente nomi, per carità – svoltavano invece a sinistra verso il casino. Che poi era giusto a due passi, nel sottoportico Delle Acque. Ma, a scanso di equivoci, in nessuno di questi due casi la politica aveva minimamente a che fare.
Dal bordello al bacaro
Naturalmente, dopo la chiusura per legge delle case chiuse, trasformato quel luogo di piacere in un appartamento di lusso, i giornalisti s’erano dovuti adattare. E al posto dei divani con le signorine profumate di cipria e di mughetto, anche quelli della corrente di sinistra s’erano ridotti a far tappa nelle osterie e trattorie vicine. Avevano tutte dei nomi che erano già un programma, ma ne ricordo due in particolare “Il Calice” e “Al Bersagliere” perché mantenevano sempre le stesse promesse: cicchetti freschi della cucina veneziana, musetto caldo e soppressa. Il tutto annaffiato da robuste dosi di vino rosso. L’acqua, liscia o frizzante era bandita e la Coca-Cola non compariva nemmeno dietro i banconi, perché lo stile, checché se ne dica, imponeva allora regole precise.
Il giornalismo ha i suoi tempi
Perciò era normale che al rientro, scoccata la mezz’ora prevista (ci potevi rimettere l’orologio), non ci fossero più occhi languidi al ritorno, ma soltanto gote arrossate e lingue leggermente più impastate del solito. Ma era un effetto che durava poco, perchè generalmente il vino lo tenevano tutti benissimo e veniva smaltito con facilità.
Uno “strano” professore
C’era uno solo che a quel rito quotidiano non partecipava mai e rimaneva sempre impassibile al suo posto. Era un signore di poche parole avanti con l’età che incuteva soggezione. Lo chiamavano tutti professore perché era laureato in tedesco e aveva iniziato la carriera all’inizio degli anni ‘40 registrando radio-Berlino. Selezionava le notizie più importanti, le traduceva in poche righe di testo e le consegnava al caporedattore. L’indomani uscivano quasi sempre ad una colonna con la stampigliatura di testa “Dal nostro corrispondente a Berlino” e una sigla in fondo. Naturalmente, placate le tempeste e passati gli anni, adesso non traduceva più niente. Si limitava a passare le agenzie dall’estero che gli passava il caposervizio. Di norma si trattava di quelle meno importanti, roba da titoli bassi nelle pagine interne. Ma nessuno l’aveva mai sentito protestare.
Un rito “personale” del giornalismo
Lui, che tra l’altro non dava confidenza a nessuno, dopo che gli altri erano sciamati via, dava vita da solo ad un rituale degno di un salotto borghese. Alzava da terra una borsa di pelle marrone che si portava sempre dietro, tirava fuori una salvietta bianca, un thermos rosso ed un pacchetto di “bussolai” di Burano. Poi, dopo aver svitato il tappo del thermos ed essersi versato quello che credevo tè nel bicchiere di plastica, inzuppava con cura i biscotti e li mandava giù, aiutandosi con piccole sorsate. Il tutto senza mai guardarsi intorno o dire una parola.
Giovane e ingenuo
Io, allora, non solo ero il più giovane componente dell’Ufficio politico del giornale, ma anche l’unico astemio dichiarato di quella eletta compagnia e siccome con gli altri mi sarei sentito a disagio, rimanevo sempre al mio posto facendo finta di niente. Ero, e lo sapevo, una specie di pecora nera. Che secondo la moda del tempo disonorava la categoria. Ma il fatto di pensare che fra tutti quei convinti seguaci di Bacco ci fosse un altro come me, questa volta però rispettato da tutti, mi restituiva un po’ d’autostima. E mi aiutava, soprattutto, a sopportare meglio gli inevitabili sfottò dei colleghi, che partivano sempre dal solito proverbio stantio: “Diffida di chi non beve vino”. Bè, se non diffidavano del professore di tedesco, prima o poi si sarebbero fidati anche di me. Ma come al solito non avevo capito niente. Ero ingenuo come una recluta alpina appena arrivata al reggimento.
Un regalo inaspettato
Una sera d’ottobre – colpa forse dei marroni di Combai che il padrone del “Calice” riusciva sempre a procurarsi per primo – avevano tutti bevuto più del solito. Al ritorno erano allegri, scherzavano, si prendevano in giro ricordando vecchie bisbocce vissute da amici. Il capo delle “cronache” Giorgio Bressan, ufficiale dei paracadutisti ad El Alamein, grande atleta, si era già esibito in una spettacolare verticale sulla scrivania e tutto prometteva una bella serata. Peccato che una mano ignota avesse lasciato cadere con noncuranza vicino a me un pacchettino con il nastro azzurro, che non prometteva niente di buono. Dite che avrei potuto far finta di niente? Certo che sì, ma in queste cose non sono mai stato bravo. E poi ero troppo giovane. Così, mentre le voci si zittivano una dietro l’altra e tutti mi controllavano con la coda dell’occhio ho cominciato a scartarlo.
Un’esplosione di rabbia
Che c’era dentro? Beh, intanto un bigliettino con sopra scritto in stampatello “Al nostro “cioccolatino”, sperando che cresca”. Poi, naturalmente, dei veri cioccolatini. Al latte, è ovvio.
Era la prima volta che mi trattavano come un bamboccio capitato lì per caso, ma in fondo era uno scherzo senza cattiveria, da prendere per quello che era: magari ridendo e mangiando i cioccolatini alla loro salute. Io però a quel tempo, lo ripeto, ero ancora giovane e il sangue mi correva veloce. Così, invece di passarci sopra, avevo buttato tutto per terra e urlando “cioccolatini sarete voi, prendete esempio dal professore, che beve solo tè ed è un signore”, m’ero alzato di scatto rosso in faccia per la rabbia.
Dite che era una reazione sproporzionata, che stavo esagerando?
Il dubbio m’era venuto quasi subito, soprattutto perché dopo la mia sfuriata era sceso un silenzio che si tagliava a fette. Il caporedattore De Polo mi guardava scuotendo la testa; gli altri faticavano a non scoppiare a ridere; il professore, invece, continuava tranquillo a sgranocchiare i suoi “bussolai” senza alzare la testa. Sembrava la scena di un film da cineforum, fatta apposta per far discutere tanto. Ma il mio imbarazzo, quello sì, era vero. Anzi, cresceva sempre più e non sapevo come venirne fuori.
Una strana lezione di giornalismo
Dicono che proprio da queste scene i giornalisti anziani giudicavano una volta i giovani colleghi. Da come sapevano reagire e dominare le situazioni. Sarà. Per quanto mi riguardava in quel momento sarei stato benissimo al Polo Sud, a nascondermi tra i pinguini. E invece ero lì e ci sarei rimasto chissà fino a quando se non fosse intervenuto Giorgio Bressan, caposervizio di lungo corso, laurea in lettere nel cassetto, l’autorità giusta per rimettere le cose al posto giusto.
Una lezione di giornalismo pagata con una ramanzina
“Intanto, aveva esordito serio, diamoci subito una calmata. I cioccolatini, se presi con giudizio, non hanno mai fatto male a nessuno, perciò è un peccato sprecarli come fai tu. Poi, vorrei ricordarti che un cronista quando fa un’affermazione deve essere sempre certo di quello che dice, se no rischia di perdere la faccia. Per esempio, sei proprio sicuro che nel thermos del professore ci sia davvero tè o magari qualcos’altro, tipo cabernet, merlot o semplicemente raboso? Se tu avessi controllato prima te ne saresti accorto e avresti evitato questa figura ridicola. Lui è di sicuro un signore come dici, ma il tè non sa nemmeno cosa sia e tu, mi dispiace, di strada per diventare un vero giornalista ne devi fare ancora tanta. Prenderlo per uno che beve quella brodaglia insipida come una vecchia signora è il massimo. Fossi in lui mi arrabbierei. Ma non sentivi nemmeno l’odore del vino?”
E tutto finì li, finalmente con una risata generale
Così andavano le cose in quel febbraio del 1971. Per iscriversi all’Ordine dei giornalisti allora non bastava superare gli esami di idoneità a Roma, c’erano anche altre prove, lezioni di giornalismo altrettanto importanti. Io ne avevo appena affrontata una. Ed ero stato rimandato a settembre.