Nei giorni scorsi ì stata diffusa la notizia che il Fondo per l’ambiente italiano (Fai) ha ricevuto in donazione il complesso monumentale di San Vito di Altivole (Treviso) noto come Memoriale Brion, opera estrema dell’architetto Carlo Scarpa. Un fatto di grande rilievo culturale e sociale che dovrebbe interessarci tutti, non solo i veneti. E non solo gli interessati all’architettura del Novecento. Il Memorial è un patrimonio comune. Punto.
Per me è stato come illuminare lo schermo della mente dove è apparsa, chiara e forte, un’immagine d’epoca: erano i primi anni Ottanta dell’altro secolo e avevo in mano una rivista fotografica di prestigio: si chiamava Du, e pubblicava un particolare del capolavoro scarpiano stampato in bianco e nero sulla copertina. Il Memorial è stato un primo incontro: con l’autore del servizio fotografico, Fulvio Roiter, che sarebbe diventato un amico, con la visione di quelle tombe della famiglia Brion incastonate nel paesaggio veneto, e, infine, con il genio folgorante di Carlo Scarpa.
Le tombe dei fondatori di Brionvega, Giuseppe e Ornella, insieme a quella dello stesso artista disegnata dal figlio Tobia, hanno una caratteristica originale: non sono “cimiteriali” in senso stretto, come quelle del piccolo camposanto del paese lì accanto; sono, piuttosto, brani di un racconto architettonico che chiamerei il Giardino funebre di una grande famiglia veneta o, meglio, un Museo di memorie di pietra (ah, il cemento di Scarpa, e di Roiter…)
Dulcis in fundo: per un fan della narrativa fantastica, quelle arche e gli altri elementi del Memoriale li sentivo come diversi, fortemente alieni. Oggi scopro che appariranno in un episodio di Dune, il film diretto da Denis Villeneuve tratto dall’omonimo romanzo fantascientiico di Frank Herbert. Una porta aperta da un architetto visionario su altri mondi.
Epigrafi & lapidi
Quante forme ha la memoria. Penso per esempio alle lapidi oncastonate su muri più o meno nobili, ciascuna con la sua data, nei luoghi abitati. A proposito, c’era lo scrittore Piero Chiara che le annotava. Durante i suoi viaggi, ne ho viste pubblicate alcune curiose su un quotidiano della Svizzera italiana. Le trovava ovunque, com’ è naturale, così come ho fatto io, in paese: addirittura in una casa di contadini persa nei campi di Bresparola, frazione di Polesella (Rovigo), compressa tra la ferrovia Venezia-Ferrara e il canale Fossa. Eccola: In vita / sempre ricordino / i figli miei adorati / il motto / In labore / divitiae et honor. La data: Agosto 1914.
E le epigrafi? Anch’esse forma di memoria collettiva e popolar In un articolo di giornale ho trovato un inciso che riguarda Raffaello, il grande pittore del Rinascimento: il papa Giulio secondo gli raccomandò di raccogliere marmi antichi, necessari a costruire opere grandiose, ma nello stesso tempo di “salvare le epigrafi, perché utili allo studio delle Lettere”, e insieme per “coltivare l’eleganza della lingua latina”.
Il fascino dei confini
I poeti che concorrono al Premio Bernardi di Oderzo affrontano quest’anno un tema complesso: il confine, con il suo plurale. E’ una parola che ha un suo fascino, per chiunque viva ad occhi aperti. Oltre le parole, ci sono persone che vengono a noi, continuamente, da un confine più o meno lontano. Come l’italo sloveno Boris Pahor, che in questa estate (Trieste, 26 agosto 1913) avrebbe compiuto 108 anni, noto per il suo destino di perseguitato che ha narrato nel libro Necropoli (1997 edizione italiana). Con il suo esempio, con la scrittura, ci ha insegnato che il dialogo e l’apertura all’altro, chiunque egli sia, creano cultura, cioè civiltà che è, in senso stretto, scambio di valori.
Ma i confini, purtroppo, sono anche crudeli: “Nascere in un territorio di frontiera” ha scritto Antonio Scurati, “comporta il rischio di sperimentare conflitti etnici violenti, che possono sconvolgere la vita e aprire le porte dell’orrore”.
Pahor ha vissuto come uomo di confine soffrendo ingiustizia e resistendo per decenni (sperimentò il lager) non per qualche colpa ma a causa della sua nascita in Slovenia. Di lui, della sua dirittura morale e forza d’animo, ha detto il suo amico Claudio Magris: quella di Pahor è stata “un’esistenza mai rivolta all’indietro”.
Oggi, dopo due guerre mondiali, i confini nella nostra Europa avrebbero ancora un senso “soltanto come soglia di dialogo e connessione”, cioè porte aperte. E’ triste doverlo dire mentre una guerra imperialista sta divorando l’Ucraina, ma è necessario “pensare” in un certo modo, sentendoci insomma tutti uomini e donne di confine, appostati su una frontiera ideale.
Frammenti dal silenzio
(poesia)
Ancora cerco parole spoglie,
le più vicine al vero,
al nero da cui tutto proviene.
In qualche parte del cielo sparge
il suo diadema la mia costellazione.
Dove affondi mia vita sviata?
In che vuoti silenzi?
In che melma di fossili alfabeti,
di segni malcerti?
Dura da anni la stretta dell’afasia:
né viltà né virtù, tacita agonia.
Dimenticato il sogno
resta l’abisso che mi tenta –
e io, spasimo e pietra,
la voce che vi si annienta.
Mi dico segui la talpa, la radice,
il rovo che fiorisce; la libellula,
la libellula segui, e la fredda luce
della tua stella.
Ma quando l’ombra di una parola
affiora nello schermo della mente,
fiore guizzo lamella d’alba,
non trova corpo e destino.
Ombra, non suono, non segno.
Ah cieli stellati familiari e muti!
Giuseppe Surian
Da Poesie, Edizioni Eidos 2006
GRAZIE IVO DI TANTE RIFLESSIONI CHE INTERROMPONO LA CALURA ESTIVA E RIEMPIONO LE ORE DI OZIO!!! TOCCHI SEMPRE NEI SENTINENTI!!! OGNI DOMENICA È UN BEL APPUNTAMENTO.GRAZIE,FRANCA