Cronache da un inferno in terra, l’inferno che stiamo attraversando, tra pandemia, acutizzarsi dell’odio e delle contrapposizioni feroci, una guerra insensata e devastante nel cuore del Vecchio Continente. C’è tutto questo, e molto di più, in un crescendo drammatico che a tratti toglie il fiato, nell’ultima raccolta di versi di Giovanna Pastega, Zona rossa, Laura Capone Editore (2021), appena presentata all’Ateneo Veneto di Venezia.
Chi è Giovanna Pastega
Pastega, giornalista professionista e scrittrice, è da sempre molto impegnata nella difesa dei diritti delle donne e nella lotta contro i femminicidi: il suo Il canto delle balene (2016), che affronta con forza e lucidità il tema della violenza domestica, è divenuto un libro simbolo.
Inoltre, è ideatrice e coordinatrice di “Giuria Giovani”, il progetto nazionale di promozione della lettura e della letteratura nelle scuole di ogni ordine e grado, realizzato per la LCE di Roma e promosso da Book City Scuola. Dal 2018 promuove e coordina il Premio Nazionale di Critica Poetica “Gino Pastega”, dedicato agli studenti delle scuole superiori.
Giovanna Pastega e la Zona Rossa
Zona rossa ritorna alla radice, nella difficoltà d’intravvederla. Anzi, ritorna ad uno stato che ricordiamo nell’anima, senza poterlo raggiungere. I testi, scanditi da immagini iconiche – Giovanna è anche fotografa – raccontano il dolore, la perdita del senso, l’arrivo del cigno nero. Inatteso, orribile nella sua ineluttabilità. Impossibile da combattere, all’apparenza.
Il lavoro di Giovanna Pastega
Pastega scarnifica l’esistente, interpolando il dentro e il fuori; parla della violenza che rivolgiamo agli altri (e lo fa con disarmante sincerità) e di quella che riceviamo. Scarnificare, nel senso di “aggredire” (in un moto che non sembra più nemmeno umano) e nell’altro, disperato, di scavare fino al principio.
La Zona Rossa
Il suo è un privato Qoheleth, un Ecclesiaste di lancinante chiarezza: «Mi nutro / – scrive – e resto convinta / dell’inutile ovvietà / di ogni istante / che m’inchioda / a questa terra». Una trasparente lucidità, in cui «L’ignoto / è arrivato / come una scure». La zona rossa, spiega la poeta, è un luogo fisico, una condizione esistenziale. Se siamo venuti da un qualche paradiso, forse l’abbiamo scordato.
Non solo
La zona rossa è prigionia e prevaricazione, una sorta di confine senza speranza: «Ti prego / – recitano i versi – resta nel limite / nella zona rossa / che ti ho disegnato / Il tuo sangue / la delimita». Torna alla mente la disumanizzazione descritta dal Primo Levi di Se questo è un uomo, come un’onda di sommersi, senza contatti con la vita.
Giovanna Pastega e la memoria
Eppure, la memoria di quella radice fa, nonostante tutto, breccia nella desolazione: «Io sono / odore / memoria / vapore / Io sono / profumo».
Nel Qoheleth di Giovanna emergono i profumi, con la forza di una memoria rituale ancora riconducibile allo spunto biblico: sono i besamim, per traslato gli incensi odorosi della cerimonia che chiude il giorno festivo, quando infine l’anima del Sabato si distacca dal mondo e risale. Così anche l’afflato vitale – più forte di ogni rogo doloroso – riemerge.
La coscienza di sé
Nell’immaginare una qualche rigenerazione, dopo la frattura immedicata, esiste una scheggia luminosa, anche se tagliente come una lama. È scarificazione, cicatrice autoprodotta. È coscienza di sé che emerge dal nulla: «Ho immaginato colori / odori / musica / carezze / e soprattutto tempo». Quel tempo che non possiamo recuperare, il tempo sordo, perduto, disilluso; quello futuro che non si ha ancora energia per percepire, ma comunque esiste.
Non c’è niente di più forte della vita
Sorella a Giovanna Pastega – nel tamburo ritmico di un canto sincopato – ricordo la voce di Mariangela Gualtieri, sullo strappo del tempo che significa la morte. Strappo misterioso e triste, immenso, che trasforma «il niente in un niente più grande». Però c’è tutta la vita dentro, tutta la sofferenza, in quella radice appena ritrovata nei versi di Giovanna: «Vivi / è l’unico / rimedio / al male / che ci rende / ciechi / che ci toglie / il fiato». Nulla è più forte e dolente della vita, neppure l’indifferenza di ogni abisso.
Neppure la morte, talvolta, in poesia: come chiude Gualtieri: «adesso e in ogni attimo a venire / fino alla spiga consegnata allo specchio / alla moneta fra le labbra bianche».