Il suo posto di lavoro, quando il Gazzettino si trovava ancora a Venezia, nella centralissima Calle delle Acque, era nella vecchia sala da pranzo di Ca’ Faccanon che ospitava la Cronaca. La sua scrivania, la prima a destra appena entrati, si distingueva da tutte le altre per due motivi, allora segno di particolare distinzione: l’ordine immacolato del piano di lavoro, l’assenza, di bruciature, portacenere o tracce di sigarette varie. In quell’inizio degli anni ’70, epoca di fumatori incalliti e di enfisemi galoppanti capitava molto di rado perché i giornalisti, nei film e nei romanzi avevano sempre la sigaretta in bocca da esibire. A lui, invece, fumare non piaceva. Ma siccome era un tollerante non si lamentava mai del fumo degli altri, che da parte loro ricambiavano cercando di girargli lontano. Leopoldo, Leo o Poldo per gli amici, era fatto così: otteneva quasi sempre quello che voleva senza discussioni. Anche perché era uno che incuteva naturalmente rispetto.
Del resto era un tipo diverso anche negli orari di lavoro
Mentre gli altri intorno a mezzogiorno si facevano vivi in redazione con la loro bisaccia di notizie, lui a quell’ora bivaccava sempre tra il Comune ed il ponte di Rialto. Più esattamene nel baretto ai piedi del ponte, dove i veneziani doc di allora facevano sosta per un aperitivo e quattro chiacchiere in libertà. Capitava lì dopo la solita ricognizione a Ca’ Farsetti e veniva accolto come il socio di un club esclusivo. Nessuno si preoccupava che fosse un giornalista, perché prima di tutto era uno di loro e poi non aveva mai tradito la fiducia di nessuno. Per capirci, non era il tipo da origliare dietro le porte, anche perché non ne aveva bisogno: quello che gli serviva lo sapeva sempre per primo.
Leo e le sue abitudini
Di norma comunque, per trovarlo al giornale bisognava arrivare in sede dopo le quattro del pomeriggio, e comunque entro le sei, perché dopo spariva di nuovo. In quella grande sala rettangolare coi due finestroni che davano sul canale, l’atmosfera satura di fumo, i telefoni che squillavano e i cronisti alla ricerca affannosa di notizie, lui sembrava un marziano. Arrivava e aveva già tutto in testa.
Leo e la sua grandezza
Non si perdeva in chiacchiere, appoggiava le mani sulla tastiera della vecchia macchina da scrivere e dopo un attimo di riflessione cominciava a pestare. Qualcuno quel rumore l’ha accostato a quello di una mitragliatrice, ma ovviamente esagerava o non aveva fatto il servizio militare. Sta di fatto però che quel crepitio, diventato leggendario tra quelli che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui, durava al massimo una mezz’ora. Dopo, rialzava le spalle e sfilava con un colpo secco la seconda delle tradizionali due cartelle.
Leo e l’articolo già fatto
Era fatta. L’articolo per l’indomani, al massimo con due o tre correzioni a penna, era pronto. E c’era tutto quello che era accaduto , stava accadendo, o doveva accadere nella sede del Comune.
Perché lui, Leopoldo Pietragnoli era da sempre il cronista principe di quell’ambiente. Uno che con sindaci, assessori, consiglieri e impiegati si dava del tu ed era di una riservatezza a prova di bomba. Non per niente aveva frequentato il Comune fin da ragazzo, seguendo le orme del padre Pio, giornalista anche lui e a suo tempo assessore. In ogni caso sulla politica cittadina era imbattibile, le azzeccava proprio tutte e non si capiva perché uno così – oltretutto con una laurea in Lettere nel cassetto – non ci si dedicasse a tempo pieno. Ma era una domanda inutile, visto che non era tipo da promettere una cosa e poi non farla. Piuttosto si era scelto un altro ruolo o un’altra missione se si vuole.
Veneziano da generazioni si sentiva geloso custode della sua città per cui nutriva un amore senza compromessi
Per lui un “masegno” sbreccato, il gradino di un ponte che col ghiaccio si trasformava in una trappola micidiale, l’intonaco di un palazzo in Merceria che si sbriciolava, erano notizie che non potevano finire in una “breve” a piè di pagina. Così s’era inventato una rubrica “L’angolo del degrado” che usciva con grande successo ogni lunedì mattina. Per i veneziani, insieme ai necrologi, era la parte del giornale più letta. E siccome era sempre corredata da fotografie che non lasciavano mai niente all’immaginazione, amministratori pubblici ed eventuali responsabili ne tenevano ben conto. Anche perché in questi casi Leo era capace di trasformarsi in un autentico dobermann: l’osso, meglio la buca da colmare, non la mollava più finché non era sparita.
Oggi si direbbe che era un uomo di carattere, ma alla sua maniera però, senza esibizioni inutili
Per esempio, quanti sapevano che negli ambienti del Patriarcato la sua voce era tra le più ascoltate e un Patriarca, futuro santo, come Albino Luciani lo tenesse in gran conto? Pochi, perché di questa componente del suo “io” di cattolico, senza se e senza ma, aveva grande pudore. Una volta sola s’era lasciato andare, la mattina del 16 settembre del 1972, quando in Piazza San Marco Paolo VI si era tolto la stola e l’aveva posata intorno al collo di un imbarazzatissimo Luciani indicandolo come il suo successore.
Il Leo cronista
Lui era in prima fila e gli brillavano gli occhi come mai, sta a vedere se per il sole, come diceva lui o per la commozione che glieli aveva improvvisamente inumiditi. Ma era stata un’eccezione, perché Leo si vantava sempre di essere prima di tutto un cronista: fedele ai fatti anche quando erano di un colore che non gradiva. La sua era onestà intellettuale vera, il fiore all’occhiello dei grandi giornalisti, quelli che non si piegano alle mode o al politicamente corretto del momento.
La svolta
E la riprova è che dopo decenni di lavoro duro e silenzioso prima come redattore, poi come caposervizio sempre in Cronaca al Gazzettino di Venezia, (nel bene e nel male è la mia bandiera…) quando il filosofo Massimo Cacciari, comunista doc, diventa sindaco è a lui che si rivolge per dirigere l’ufficio stampa del Comune. Una svolta che Leopoldo accetta senza esitazioni, nella consapevolezza di poter continuare da lì, ancora meglio, la sua opera in difesa di Venezia. E sarà merito suo se i colleghi di tutti i giornali e di tutte le ideologie potranno trovare, da quel giorno e per lunghi anni, le porte di Ca’ Farsetti spalancate. Senza segreti da nascondere. Lui, sempre sorridente e disponibile, il professor Cacciari spesso corrucciato e impaziente, formeranno una coppia imbattibile. Al punto che la sede comunale diventerà presto quella casa di vetro che la democrazia vorrebbe e tutti i giornalisti sognano.
E’ questo un periodo di grande lavoro, ma anche di grandi soddisfazioni
Leo riesce con i suoi spunti a riconquistare l’attenzione di giornali e televisioni sui grandi problemi di Venezia, che sono tanti e da troppo tempo irrisolti. Mette a disposizione dati, immagini, ed i suoi preziosi contatti personali: è la sponda naturale di ogni inviato speciale che arriva in laguna. Ma non si limita a questo. Continua a sfornare articoli, scrive libri, cura pubblicazioni, è presente in tutte le manifestazioni che contano, perché Cacciari di lui si fida e ne fa spesso il suo portavoce naturale. Di fatto è una seconda giovinezza professionale, che vive con orgoglio senza dimenticarsi mai però di essere sempre, prima di tutto, un giornalista. Come certi carabinieri che senza divisa si sentono nudi, per lui quella parola non rappresentava semplicemente un modo di essere e di interpretare la vita, ma era una seconda autentica pelle.
Leo altruista
Ne era così orgoglioso che quando – ormai in pensione- gli era stato chiesto di spendere la sua esperienza per i colleghi, non si era tirato indietro. Molti giovani l’hanno conosciuto in quel periodo e hanno potuto apprezzarne la serietà e la competenza, che sono le prime doti per chi vuol far parte del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti. Lui, per la verità era anche capace di altro. Come tesoriere prima e subito dopo come segretario, era capace di sdrammatizzare ogni situazione riuscendo sempre a far prevalere il buon senso. Si contano a decine i colleghi che si sono rivolti a lui per un consiglio, anche umano oltre che professionale e a nessuno ha mai detto di no. Su una sola cosa però, sui principi base della sua professione, non derogava mai: “Se vuoi essere rispettato – diceva spesso – rispetta tu per primo la dignità degli altri e non nascondere le notizie quando ti fa comodo. L’etica non è un elastico che si tira a piacere”.
Poi, sulla soglia degli ottant’anni la doccia fredda: la notizia di un tumore senza scampo
Lo affronta con serenità nella sua casa in pietra d’Istria di Santa Maria Formosa, continuando da lì a lavorare fino agli ultimi mesi. Si spegne a ottantuno anni, nell’estate del 2021, lasciando un vuoto – non solo tra i colleghi – incolmabile, di cui si fa interprete per primo il presidente della Regione Zaia. Prima di morire, però, Leo ha avuto ancora il tempo per una lezione importante che pochi conoscono.
Il suo NO
Era a lui che il Consiglio dell’Ordine Veneto aveva deciso di assegnare, nel 2021, il Premio alla Carriera. Se lo meritava per mille motivi ed era il giusto traguardo di una vita professionale prestigiosa. Poldo stava male, era agli sgoccioli ma ancora lucidissimo e appena saputo della proposta l’aveva rifiutata con tutta l’energia che gli rimaneva. Il solo sospetto che quel premio gli arrivasse perché stava morendo l’aveva fatto infuriare. Non accettava, come non aveva mai accettato favoritismi di nessun tipo. E questo è il prezioso testamento non scritto di cui dovremmo far tesoro oggi, ogni volta che cerchiamo una raccomandazione.
Ciao Leo
Certo non poteva immaginare che -per sanare il vuoto ed onorare un albo d’oro di cui i giornalisti si fanno vanto- adesso che non c’è più e non può dire di no, il Premio alla Carriera gli sarebbe stato assegnato lo stesso. E’ quello per il 2022. Gli è stato conferito – unico caso – alla memoria. Con una motivazione come sarebbe piaciuta a lui: elencando fatti e date di una vita al servizio degli altri e di Venezia. Ciao Leopoldo, dovunque tu sia, cerca di volerci sempre bene.