Arrigo Cipriani ha compiuto 90 anni. E li ha festeggiati a Venezia con un gruppo di amici nel suo locale sul canale della Giudecca, “Harry’s Dolci”. E’ nato il 23 aprile 1932. Di certo il veneziano più famoso nel mondo. Il patron dell’Harry’s Bar di Venezia, dichiarato monumento nazionale. E di un impero mondiale di ristoranti che si estendono dalle due coste degli Usa all’Asia, all’Arabia, a tutta Europa. Imprenditore di successo, ma non solo: è la massima autorità in materia di cucina italiana. E uno dei testimoni più credibili di Venezia. Nel suo locale sono passati i grandi del Novecento. Premi Nobel e premi Oscar, autori di capolavori delle arti, alcuni tra gli uomini di maggior successo nella finanza e nell’imprenditoria. Cipriani ha raccontato la sua storia e quella dei suoi locali in una serie di libri fortunati.
Arrigo e il suo racconto
L’Italia era fatta, restavano da fare gli italiani ed era la cosa più difficile visto che in tanti secoli nessuno c’era riuscito. Non c’è stato bisogno delle armi, è bastato affidarsi a tre scrittori e ai loro tre libri. Uno ha parlato alla testa degli italiani, l’altro al cuore, l’ultimo alla pancia (…)Tre scrittori si assunsero il compito di formare i nuovi italiani, di creare una sorta di educazione nazionale. Edmondo De Amicis ci riuscì con “Cuore”, Carlo Collodi con “Pinocchio”, Pellegrino Artusi con “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.
Arrigo e il paragone con Artusi
(…) Artusi scrive per chi vuole recuperare la ricchezza della terra e della cucina. Parte dal principio che la cucina sia un’arte e una “scienza nuova” e come tale vada curata. Sostiene che la tradizione è fatta di innovazione continua che diventerà, a sua volta, tradizione. Certo non poteva prevedere che mezzo secolo dopo l’industrializzazione anche selvaggia, la forte emigrazione interna e il turismo di massa assieme alla corsa al consumismo, avrebbero pianificato le abitudini alimentari e il gusto degli italiani. Soprattutto il “gusto comune”.
Per molti Artusi è “inventore delle cose che si mangiano”. E a leggere le sue ricette viene da domandarsi cosa sia accaduto oggi per far decadere da arte l’alimentazione.
L’intuizione di Artusi
In fondo, rispetto a De Amicis e Collodi, Artusi aveva capito bene una cosa. Non tutti vanno a scuola e sanno leggere, non tutti si possono permettere di sognare, ma tutti devono mangiare. Il messaggio è tranquillizzante. L’uomo resta legato al suo passato, soprattutto quando si siede – se può – a tavola per mangiare. Ma allo stesso tempo percepisce il futuro che deve attraversare. Anche a tavola. Al destino non si sfugge, conta però attraversarlo con un buon piatto e un buon bicchiere di vino. È o non è “l’Arte di mangiar bene”?
Sembra di vederlo alle prese con certi menu di oggi. Quelli che si riempiono di paroloni dietro i quali nascondere un piatto semplicissimo, quelli che usano “letti di…” per occultare spesso le dimensioni ridotte della pietanza. Pare di vederlo davanti ai molti canali televisivi che pullulano di cuochi, anzi di chef, che esaminano altri aspiranti chef. Che insegnano una cucina non sempre fatta di scienza e di arte di mangiare bene. Che usano parole straniere per definire cibi storicamente italiani. Sono così tanti gli chef in tv che qualche volta viene il dubbio di quanti pochi siano rimasti nelle cucine dei ristoranti
Arrigo e anche il superamento della pandemia
Tra quel passato e questo presente c’è di mezzo anche una pandemia, il Covid 19 ha sconvolto abitudini e perfino il “gusto comune”. Qualcuno addirittura ha perso letteralmente il gusto. Anche il mondo della ristorazione ne è stato travolto, molti locali sono stati costretti alla chiusura (…)
Se c’è un erede dell’innovazione e della tradizione dell’Artusi non è da cercare tra i cuochi che affollano le tv. Nemmeno tra quelli che si vantano del numero delle stelle assegnate al loro ristorante spesso proporzionali soltanto all’elevatissimo prezzo per sedersi a tavola. Il vero erede di quella scienza e di quell’arte è un veneziano che da decenni accoglie nel suo ristorante ora monumento nazionale. Che ha portato in giro per il mondo la cucina italiana senza mai stravolgerla per adeguarla ai gusti locali. . Ha continuato a cucinare come ha imparato dal padre che aveva imparato dalla mamma e dalla nonna.
Che non ha perso mai il treno dell’adeguamento ai tempi, ma non ha mai tradito quella che Artusi ha chiamato “scienza nuova”. Arrigo Cipriani, oggi novantenne, patron e anima dell’Harry’s Bar di Venezia. Famoso in tutto il mondo, non ha mai nascosto la sua diffidenza per le “stelle”. E nemmeno quella per i troppi chef in tv. Racconta, anzi, che quando il suo cuoco a New York si assentò per partecipare a una trasmissione televisiva. Il giorno dopo fu mandato a pelare le patate.
Il racconto di Arrigo
Cipriani parte dal rapporto col cliente. Dice che oggi in molti locali il cliente è diventato uno spettatore. Uno scolaro giudicato dei non più intelligenti perché deve sorbirsi uno spettacolo fatto di degustazioni, assaggi e assaggini, fiammate e invenzioni non tutte lodevoli. Di forzature della forma anche nel menu. Prima c’era semplicemente l’arrosto, adesso deve essere accompagnato da dieci aggettivi almeno, conseguenza dei formalismi degli ultimi dieci anni. Spesso i presunti innovatori si sono limitati a cambiare i nomi. Ad adattarli alle mode, aggiungendo il colore al piatto, la spezia del momento, la ricetta ricercata che nasconde quasi sempre quella della nonna. Mascherata da invenzioni senza sapore. Sembra quasi che per molti ristoratori non sia importante lasciare il cliente al tavolo e fargli scegliere quello che vuole, ciò per il quale è entrato nel locale.
Arrigo Cipriani sostiene che vale sempre la lezione di Artusi: “Il miglior maestro è la pratica sotto un esercente capace”. Dovrebbe essere la norma, ma sottolinea Cipriani non sempre lo è. “Quante volte capita di scontrarsi con un servizio supponente, al limite dell’educazione, poco attento, poco gentile, spesso arrogante. Oppure di una finta e falsa cortesia dietro la quale non c’è il contenuto? E cosa dire della presentazione di piatti la cui caratteristica è una totale mancanza di cultura del gusto della nostra tradizione. E comunque sol confezionati con l’assillo di mostrare velleitarie e sterili maestrie e di sbalordire con l’inganno della novità”.
Arrigo e la cucina
Dice Cipriani che il lockdown ha riportato molte famiglie a cucinare in casa e le ha restituite a un certo buonsenso in cucina. Solo cucinando ti accorgi di quello che devi fare, delle correzioni da apportare, degli elementi necessari per un piatto. Sottolinea che un piatto fatto bene lo devi riconoscere per forza. Che la gente non ha perso il gusto, che sa sempre distinguere tra il baccalà buono e quello meno buono. Tra un risotto ben cotto e un altro scotto, come davanti a un vino, di fronte a un dolce.
Per Cipriani conta la parte immateriale, l’atmosfera che si avverte appena si entra. La sensazione di sentirsi a casa, la capacità di inventare e di far ragionare la gente. Conta la conduzione familiare, la semplicità e l’accoglienza che sono, poi, il vero lusso. Per uno che ha scritto “L’elogio dell’accoglienza”, un libro adottato nelle scuole alberghiere per insegnare il rapporto con il cliente, queste sono le vere indicazioni (…).
Da Arrigo ad Artusi
Cipriani sa che il Nordest è nel cuore di questa libertà e ricchezza. Ha vini e cibi, formaggi e latte, pane e dolci, spesso per trovare un sapore diverso basta spostarsi di pochi chilometri. Un formato di pasta differente, un formaggio, un dolce, un vino. Il Nordest ha tutto e da secoli lo fa al meglio. Venezia è al centro di questo forziere per ruolo storico, per ruolo culturale. Per unicità. Non è solo un fatto di mangiare. Cipriani lo affida alla competenza e all’amore, esattamente come Artusi dedicò il suo libero ai genitori “che mi nutrirono con amore e competenza”. Senza queste due qualità non c’è cultura e, soprattutto, non c’è consapevolezza.
Cipriani, 130 anni dopo, ha ripreso anche con coraggio la lezione di Artusi. E’ il ristoratore che più si è esposto in questi lunghi mesi di pandemia e di difficoltà. Che ha chiesto a nome di tutti gli altri i giusti risarcimenti. Ma ha anche tenuta alta la bandiera della qualità e della correttezza. Ha messo la faccia nei momenti bui e in quelli nei quali si intravvedeva almeno un raggio di luce.
Pochissimi e non soltanto in Italia hanno avuto il ruolo e la forza di Arrigo Cipriani. Nel rivendicare in quei giorni critici il ruolo di artisti e scienziati della cucina e di ogni lavoratore del settore fino al più umile. Tutti messi in un angolo chiuso dalla pandemia e poi in un angolo socchiuso nei giorni della faticosa riapertura. Tra distanziamenti, mascherine, burocrazia che non si ferma mai, affitti, tasse. Il tutto in città disertate dal turismo, qualsiasi tipo di turismo. Svuotate all’ora di pranzo di milioni di lavoratori non più negli uffici o nelle fabbriche ma rimasti nelle case. Cipriani ha portato la voce di un’esperienza che gli deriva non soltanto dagli anni. Ma anche dalla consuetudine a muoversi su mercati internazionali, accomunati dalla paura della pandemia e dalla lotta alla stessa.
I suoi 90 anni
Anche Arrigo Cipriani ha scritto romanzi e libri di cucina, ricettari venduti in tutto il mondo e ristampati più volte; ha raccontato storie di cibo. Ha scritto un bellissimo libro sulla sua lunga esperienza in quella che chiama la “Stanza”. Il luogo nel quale ha consumato e consuma i suoi anni davanti a clienti che sono stati e sono tra gli uomini più famosi del mondo. Premi Nobel della letteratura, star di Hollywood, re e regine, industriali, miliardari, magnati e artisti.
Ci sono stati Greta Garbo e Lauren Bacall, Humphrey Bogart e Tyron Power e Gary Cooper, Orson Welles e Errol Flynn. L’ereditiera Barbara Hutton che si era sposata almeno sei volte. E gli scrittori: Ernest Hemingway, William Faulkner, Truman Capote, Thornton Wilder, Somerset Maugham, Eugenio Montale e tantissimi altri. Un bel po’ di premi Nobel e anche tanti Oscar, da De Sica a Fellini a Woody Allen. E miliardari come la Guggenheim e Gianni Agnelli e tanti altri ancora.
Cipriani ha ripreso la forza della tradizione e l’ha riproposta, non per conservarla così com’era, ma per portarla un’altra volta sulla tavola all’altezza del presente. Crede fermamente che la cucina italiana vera sia quella delle ricette delle nostre donne di casa. Quelle ricette che si sono tramandate per decenn. I e che sono ancora lì a testimoniare lo studio che le cuoche avevano messo nei sapori anche prima dell’invenzione del frigorifero.
- Dalla prefazione a “Non sono quelli delle stelle. Edizione 2022”, Antiga Edizioni, di prossima uscita
Bellissimo articolo…un omaggio meritatissimo! p.s. Eccellente la citazione dei libri “Cuore”, “Pinocchio” e “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”