Metti una tiepida sera primaverile del 1981 a Venezia: una strana processione d’individui, che regge per gli angoli enormi tele dipinte e staccate dal telaio, procede lungo le Zattere in fila indiana. In testa, a dirigere, Emilio Vedova che disperde i pochi curiosi al grido di «Alt! Fermi! Largo! Passa Tintoretto …».
Quasi un passaggio di testimone
Al di là del sotterfugio, necessario perché le grandi opere del ciclo Compresenze ’81 non passavano per il portico dello studio e bisognava reintelarle ai Magazzini del Sale, un filo forte, di connessione tra il grande Jacopo Robusti e l’esplosivo pittore novecentesco, sicuramente esiste.
Cecchetto e Tintoretto e Vedova
Lo indaga, in un saggio puntuale ed affascinante, il critico Stefano Cecchetto. S’intitola Tintoretto e Vedova. Conversazione / Lacerazione, ed è appena uscito per le edizioni My Monkey. L’episodio notturno è raccontato nel testo introduttivo di Fabrizio Gazzarri, storico assistente dell’artista e oggi direttore della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova: da allora in poi, commenta Gazzarri «tutte le opere sarebbero state realizzate con misure precise proprio in relazione al famoso portico …».
Chi è Cecchetto
Cecchetto, classe 1954, è critico e curatore indipendente; collabora con importanti Musei e istituzioni culturali in Italia e all’estero. Ha collaborato con la Biennale di Venezia, è stato consulente artistico alla Fondazione Bevilacqua La Masa, dal 2007 svolge tale ruolo per il Museo del Paesaggio e dal 2009 è responsabile per la sezione pittura e scultura del Museo d’Arte Moderna di Lucca. Ha scritto su Lucio Fontana, De Chirico e molti altri.
Il rapporto tra Tintoretto e Vedova
Questa sua ultima, felice fatica affronta in maniera singolare la corrispondenza fra due traiettorie individuali – quella di Tintoretto e quella di Vedova – lontane nel tempo, ma profondamente convergenti nelle intenzioni: percorsi di profonda autonomia, eversivi rispetto all’ambiente circostante.
I ritratti di Tintoretto e Vedova
A partire dai ritratti dei due protagonisti, colti nella loro maturità: «I due artisti rivelano attraverso il sipario dello sguardo – dichiara Cecchetto – l’inquieta consuetudine del loro immenso immaginario figurativo. Guardando la fissità di quei volti appare la consapevolezza che il tempo dell’innocenza è finito, ma che resta ancora il tempo per la confidenza …».
La forza di Vedova e le “vite” di Tintoretto
Il tempo per la confidenza: nello spazio del testo, l’autore tratteggia sinergie e differenze; tutta la forza polemica di Vedova, artista del suo tempo, calato in una personale battaglia civile; tutta l’intenzione – chiara e definita – del Tintoretto, a mostrare la vita di ciascuno, fin nei dettagli più semplici. Chiarisce Cecchetto: «La luce che emana da questi due ritratti è il bagliore di una profezia che acceca e disturba la quiete del nostro quotidiano».
Una conversazione tra gli artisti
C’è un intervallo, sempre, tra il procedere del lavoro e l’opera finita. Uno iato, in cui la contemporaneità degli eventi narrati si trasforma in denuncia, o in valore assoluto. Persino i titoli, in Vedova, il loro rapporto con la memoria dei Maestri, assumono la pregnanza di una conversazione / lacerazione, come nota l’autore. Già il drammaturgo Andrea Calmo, con la pratica di chi sa calcare i palcoscenici, aveva riconosciuto in Jacopo Robusti il talento di una mise en scène, di una localizzazione pittorica che si fa definizione etica.
Tintoretto e il mondo
Non per nulla, secoli dopo, un critico intuitivo come Rodolfo Pallucchini identificherà in Tintoretto un sentimento del mondo molto più vicino a quello della gente comune che ai canoni della raffigurazione religiosa cinquecentesca. Un altro grande studioso dell’arte veneziana, Roberto Longhi, nel suo pur illuminante Viatico, non comprenderà: «Com’è, insomma, che il Tintoretto resta il canovaccio e pare qualche volta un Vasari o uno Zuccari di genio e qualche altra un Greco senz’anima?».
Cosa accomuna Tintoretto e Vedova?
Quello che il Longhi non comprende – questo uno dei punti di forza del saggio di Cecchetto – è che proprio nell’istinto imperfetto dell’impeto tintorettiano sta il suo apporto innovativo alla grande tradizione pittorica veneta. La luce e l’ombra dei grandi teleri di San Rocco, non più intese come semplice effetto coloristico, ma come parte integrante del dramma. «(…) Tutto va rimesso in causa. Nuovi gesti, nuovi segni, nuove immagini in relazione con nuove perentorie esigenze espressive – annoterà quattro secoli dopo Emilio Vedova – urto di verità, catartico rovescio per un aprirsi di nuova coscienza».
Il filo che collega i due artisti è resistente
La Fabbrica di San Rocco (impresa compiuta dal Tintoretto negli anni che vanno dal 1564 al 1587) ci mostra che il dramma ha una radice terrena, si è manifestato tra la gente. Lo squarcio giallo nel cielo della Crocifissione, già notato da Jean-Paul Sartre, ritorna in Vedova, come annuncio e presagio.
Una guida che ribalta le origini
Cecchetto ci guida a considerare, sempre, le origini, a ribaltare le prospettive come Vedova ribaltava i quadri, per valutare se funzionassero anche rovesciati: «Astratto? – la nota da Quaderni/Studio del pittore, riportata nel saggio, è significativa – I miei agganci sprofondano nel ‘reale’, ma dove comincia a finire il reale?».
Lo spazio per Tintoretto e Vedova
Ciò che affascina, in questo viaggio di consonanze e d’interrogativi, è la progettazione narrante, il rapporto con lo spazio: per Tintoretto, San Rocco è il luogo della trasformazione (lo studioso la definisce la sua Cappella Sistina); per Vedova, ogni scenario occupato – lo studio di Palazzo Carminati, i Magazzini del Sale, l’Abbazia di San Gregorio, dal foglio di carta alla grande dimensione – è terra di conquista.
Venezia location perfetta
In comune, hanno Venezia, la sua splendida scenografia. L’emozione di vedere l’architettura attraverso i disegni di Vedova ha una valenza di per sé formidabile ed inquietante; è un’indagine strutturale che trasforma i valori plastici, per rifondarli, come nella visione di Tintoretto. Per entrambi, è l’equilibrio instabile, il moto perpetuo, l’imprecisione feconda a fare la differenza. Un’identità aperta al mondo.
Vedova manifesto di sé stesso
Anzi, per Vedova, di più: in lui, sulla funzione decorativa di un dipinto, prevale sempre, come pulsione e necessità, il suo essere manifesto «un manifesto che possibilmente resti a dire di una realtà, di molteplici realtà – spiega – … Tutto sempre si incontra e si scontra». Come nell’Annunciazione di Tintoretto: l’angelo tumultuoso e il timore di Maria, in bilico.
Vedova si confessa: Tintoretto suo maestro
Tutto questo, ai tempi della confidenza: Cecchetto sceglie le testimonianze più pregnanti, della conversazione, così come della lacerazione necessaria. «Tintoretto è stato il pittore che mi ha ispirato. – confessa Emilio Vedova – D’altra parte in quegli anni non c’era tanto da sperare, da poter recuperare. C’era la Biennale è vero, era passato Soutine, ma insomma praticamente nei miei sedici anni, quando aprivo gli occhi e c’erano di mezzo questi pittori di chiese potevano essere il Veronese, il Bassano … e anche più per me il Tintoretto».
Con Vedova e Tintoretto Venezia trova nuove strade
Il filo è teso e passa anche per i rossi sanguigni di Soutine; è gesto e verità. Bello pensare che in nome di quella verità che non si svende e continua a lottare, l’umore liquido e resistente di Venezia possa sopravvivere e trovare nuove vie.
Ho appena finito di leggere il libro di Stefano Cecchetto che mi ha molto interessato e mi é piaciuto. Gran bel lavoro. E proprio bello l’articolo di Francesca Brandes!