Un grande cronista, Roberto Tumbarello, racconta un pezzo di storia italiana che avrebbe potuto essere diverso. Si basa sulla testimonianza della nipote del protagonista che era il re d’Italia Vittorio Emanuele III. La giovane ha raccontato al cronista una versione differente da quella accreditata dai libri e della Storia. Una versione plausibile. Siamo nell’immediato dopoguerra. Il Referendum del 2 giugno 1946 ha cancellato la monarchia e l’Italia è diventata Repubblica. Re Umberto II, che ha regnato appena un mese, per questo lo chiamano “il re di maggio”, ha lasciato il Quirinale per l’esilio in Portogallo. Il padre, re Vittorio Emanuele III, aveva abdicato ed era partito per l’esilio in Egitto. Tutto si svolge nei giorni che precedono l’entrata in vigore della Costituzione Italiana che viene promulgata il 1 gennaio 1948.
Di Roberto Tumbarello, collaboratore del nostro settimanale www.enordest.it, è appena uscito in libreria “Il denaro non vale nulla finché non si spende” (Armando Editore, 20 euro).
Se il Re d’Italia…
Se Vittorio Emanuele III (1869-1947) avesse abdicato prima, la Storia avrebbe preso un corso diverso. Invece, si era incaponito a rimanere ancora sul trono, ritenendosi – come la maggior parte dei genitori, come la regina Elisabetta – più in gamba del figlio, nonostante i disastri che aveva combinato durante 46 anni di regno.
I miei incontri con l’ex re
Incontravo spesso a Montecarlo l’ex re d’Italia Umberto II, papà di Vittorio Emanuele, Maria Pia, Maria Gabriella e Maria Beatrice, detta Titti, della quale ero diventato molto amico. Poi, un incidente di percorso – è difficile per un giornalista mantenere per sempre gli stessi rapporti con certi personaggi – interruppe l’amicizia e non ci incontrammo più.
L’ultima volta fu ad Altacomba al funerale della madre, l’ex regina Maria José, il 27 gennaio 2001. E non fu un incontro particolarmente cordiale.
Quel termine: maestà
Il Principato di Monaco era il luogo di incontro più comodo per le famiglie i cui membri vivevano in diverse città d’Europa. Parenti e familiari, anche le figlie, prima di abbracciare il congiunto, facevano la riverenza e i maschi un profondo inchino. Perché prima di essere padre o zio era il capo della famiglia reale, il loro sovrano. Anche loro erano sudditi come tutti gli altri. Non si rivolgevano a Umberto come papà o zio. Lo chiamavano, come chiunque, Maestà.
L’ex re va a Brindisi dopo l’armistizio
Fu proprio quell’ossequio, che io, borghese, trovavo esagerato, tra padre e figli ad avere cambiato le sorti dei Savoia e anche il destino dell’Italia. Dopo l’armistizio concluso il 3 settembre 1943 con gli anglo-americani a Cassibile – cittadina siciliana di cinquemila abitanti in provincia di Siracusa – ma reso pubblico l’8 settembre, Vittorio Emanuele III decise saggiamente di trasferirsi con tutta la famiglia a Brindisi.
Nessuna codardia ma buon senso
La scelta non fu un atto di codardìa – come riporta la storia, scritta dai repubblicani – ma un’iniziativa di prudenza e buonsenso perché i tedeschi, che si sentirono traditi dall’alleato italiano, avrebbero preso in ostaggio sia la famiglia reale sia i membri del governo. Certo il modo di andarsene non fu il migliore, è passato alla storia come la “fuga di Pescara” e questo non è un onore per la monarchia. Il re nella fuga portò con sé quasi tutti i membri della casa reale, e i vertici militari. Costrinse a seguirlo anche il figlio Umberto, che aveva programmi diversi e storicamente più opportuni.
Un principe partigiano
Il principe di Piemonte, grazie ai contatti della moglie con la Resistenza, doveva raggiungere l’indomani, il 9 settembre, le truppe partigiane per unirsi a loro. Maria José di Sassonia-Coburgo-Gotha (1906-2001), era figlia di Alberto I (1875-1934), re dei Belgi, e di Elisabetta di Baviera (1876-1965), di tendenze socialiste e per questo conosciuta come la regina rossa. Fu la sola aristocratica che Mao Tse Tung (1893-1976) invitò a visitare la Cina dopo la rivoluzione culturale del 1966. La regina andò accompagnata dalla figlia Maria Josè.
Un re che non è re
Al contrario degli altri regni in cui il sovrano è re del paese – regina d’Inghilterra, re di Spagna, regina d’Olanda – in Belgio il re è dei cittadini. Anche la figlia crebbe con idee antifasciste, tanto che i suoi rapporti con Mussolini erano sempre polemici e sul filo della lite. Maria José influenzò il marito, che aveva sposato l’8 gennaio 1930, delle stesse idee.
Come sarebbe cambiata la storia se il re non avesse detto no
Un aereo era pronto a decollare in gran segreto dall’Urbe, un piccolo aeroporto secondario di Roma sulla via Salaria, per superare le linee tedesche e paracadutare Umberto tra le truppe della resistenza. Se il padre non glielo avesse impedito, finita la guerra, probabilmente non ci sarebbe stato il referendum del 2 giugno 1946 che abrogò la monarchia. Re Umberto, che rimase sul trono appena trenta giorni, sarebbe stato considerato forse un eroe nazionale. E forse oggi l’Italia non sarebbe una repubblica ma un regno.
L’errore storico
Coinvolgere Umberto nella fuga si rivelò un errore storico madornale per le conseguenze che ebbe sulla permanenza al trono dei Savoia. Il re aveva previsto la rappresaglia dei tedeschi sulla famiglia reale e sul governo Badoglio se fossero rimasti a Roma. Qualche giorno dopo, infatti, il 22 settembre, la Gestapo arrestò la principessa Mafalda, secondogenita di Vittorio Emanuele III e Elena di Montenegro (1873-1952), nonostante fosse sposata col principe Filippo d’Assia (1896-1980), ufficiale delle SS. Fu trasferita al campo di sterminio di Buchenwald dove morì il 28 agosto 1944. Non aveva ancora 42 anni.
Un re che pensa agli errori fatti
Nel suo esilio di Alessandria d’Egitto, dove era stato seguito dal medico personale, Vittorio Emanuele III dovette pensare continuamente al suo grave errore che compromise la monarchia e l’avvenire della famiglia. Come ogni sovrano, si era comportato più da re che da padre. Ma alla vigilia dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il 1° gennaio 1948, che prevedeva la confisca dei beni degli ex regnanti, cercò di riparare in parte a quell’errore, evitando che il figlio finisse in miseria e mantenuto dalle sorelle. Fui io a scoprirlo o a sbagliarmi.
Un mistero avvolge la fine dell’ex re
Nessuno diede peso storico né politico alla morte improvvisa dell’ex sovrano mentre, a 78 anni, attraversava un periodo di piena forma. Sono convinto che, il 28 dicembre 1947, il re si sia lasciato morire o abbia addirittura chiesto la morte assistita per non creare difficoltà economiche all’erede. Lui stesso e il figlio Umberto avevano lasciato l’Italia senza portare con sé un soldo. Le sorelle non avevano problemi economici avendo fatto buoni matrimoni.
Maria (1914-2001), sposò Luigi di Borbone (1899-1967), figlio di Roberto I, duca di Parma, e di Maria Antonia di Braganza, infanta del Portogallo. Jolanda (1901-1986) il conte Giorgio Calvi di Bergòlo (1887-1977), generale di cavalleria e medaglia d’argento nella prima guerra mondiale. Giovanna (1907-2000) aveva sposato Boris III di Bulgaria (1894-1943), il cui figlio Simeone (1937) salì al trono a tre anni, alla morte del padre, e regnò fino al 1946, quando il paese fu annesso all’URSS.
Simeone è stato, poi, il solo sovrano a diventare, nel 2001, premier nel suo paese che era ormai una repubblica, dimostrando un’insolita efficienza e un particolare adeguamento all’evoluzione dei costumi, di cui solo un re è capace. Quindi, dopo essere stato sovrano di Bulgaria da 3 a 6 anni, fu poi, anche capo del governo della Repubblica di Bulgaria.
I rischi corsi dal figlio del re, Umberto
Chi rischiava di finire sul lastrico era Umberto, la cui moglie era più povera di lui. Non erano state ancora confiscate le miniere d’oro del Katanga in Congo, che Maria José aveva portato in dote. Ma non valevano più nulla, in quanto il paese, che il padre, Alberto I, considerava il suo giardino reale in Africa, era paralizzato da continue tensioni che sfociarono in una lunga guerra civile. Se a Vittorio Emanuele III fosse stata confiscata l’eredità, come appunto la nascente Costituzione prevedeva, Umberto e la famiglia sarebbero vissuti per sempre in povertà.
Il racconto di re Vittorio Emanuele
Vittorio Emanuele mi raccontò di avere attraversato, con la madre a Ginevra – mentre le tre sorelle trascorsero l’esilio a Cascais col padre – un periodo di gravi restrizioni economiche. Per una ricorrenza un parente gli aveva regalato 100 dollari. Per paura di rimanere senza soldi, il principe li custodì nella patente – li ha ancora oggi – e non li spese mai. Si sentiva protetto da quella somma.
Non c’erano paradisi fiscali
Oltre a essere divisi fisicamente – dalla fuga di Pescara l’ex regina non andava più d’accordo col marito per non avere disubbidito al padre, che gli impedì di raggiungere la resistenza – i Savoia vissero per un po’ di tempo di prestiti. Pur essendo stati cacciati dall’Italia, non portarono un soldo con sé, perché il denaro degli italiani che non gli apparteneva. Mentre al giorno d’oggi qualsiasi minuscolo politicante prepara un’eventuale comoda fuga, mandando soldi nei paradisi fiscali. Anzi, prima di partire, Vittorio Emanuele III, che era un famoso numismatico, regalò la propria collezione di monete, una delle più preziose del mondo, di sua proprietà personale, non della corona, alla Banca d’Italia, dove tuttora è esposta.
Quello strano bollettino medico emanato prima della Costituzione
Avendo trascorso il Natale del 1947 in ottima salute, due giorni dopo il re si ammalava. Uno strano bollettino medico comunicava che l’ex sovrano in esilio era stato colpito da congestione polmonare, ma rimanendo in casa, senza essere ricoverato in ospedale, come sarebbe accaduto se fosse stato vero. L’indomani, il 28 dicembre, tre giorni prima dell’entrata in vigore della costituzione repubblicana che confiscava i beni degli ex re d’Italia, Vittorio Emanuele III decedeva per una trombosi. Così era scritto sul certificato di morte firmato dal suo medico personale.
Questioni di giorni
Se il re fosse sopravvissuto di soli tre giorni, la sua intera eredità sarebbe stata confiscata. Morendo prima del 1° gennaio – dopo un lungo processo, perché lo stato provò a confiscare ugualmente l’intera eredità dei Savoia – il figlio e le figlie ereditarono i beni della Corona. Solo la quota di Umberto, perché anche lui ex sovrano, poté finire nelle casse dell’erario. Poi, le tre sorelle e gli eredi di Mafalda poterono entrare in possesso dell’eredità e divisero le loro quattro parti in cinque, con Umberto. Anche questa divisione fraterna dimostra un’educazione particolare, segno di buoni principi e sentimenti, che meritano ammirazione.