Una buona notizia culturale di inizio anno, che un poco ci riguarda, ma dovrebbe invece riguardarci molto: dai depositi dei musei italiani e delle grandi Gallerie gestite dallo Stato che custodiscono decine di migliaia di opere d’arte – capolavori, anche, e tantissime creazioni di bottega – stanno uscendo dipinti antichi che, dove possibile, lasciano l’ombra dei magazzini e passano alla luce traslocando nelle città e nelle collezioni da cui furono separati oppure vanno ad integrare altre raccolte. (Ricordano un po’ noi, quando siamo usciti dal buio del lockdown….).
Tali opere, in prevalenza pitture, sono custodite in ambienti climatizzati, in perfette condizioni ambientali, alcune sono state appena restaurate, e quindi possono tornare a vivere quando si voglia. E “vivere” è il verbo giusto: perché i dipinti e le sculture immagazzinati sono oggetti dormienti o, meglio, in animazione sospesa. Proviamo a pensarci: ogni opera vive pienamente o “si risveglia” quando intercetta la nostra presenza, quando condivide la forza della luce naturale e il calore dei nostri sguardi ammirati e curiosi: sono nate per essere guardate! E c’è un mirabile scambio: noi le facciamo vivere, loro ci donano bellezza e mistero.
Particolare interessante: da Brera e dalla Galleria Borghese di Roma tre dipinti del pittore rinascimentale nostro conterraneo, Benvenuto Tisi detto il Garofalo dal nome del paese d’origine addossato alla sponda veneta del Po, al confine tra Serenissima e Ducato degli Estensi, sono tornati a Ferrara alla cui corte il pittore aveva operato con successo. Un “ritorno a casa”, dunque, proprio come si chiama la campagna di restituzioni voluta dal ministro Franceschini.
Un diverso parlare
Apri il giornale e leggi una frase così: “Nella grandissima maggior parte”, poi un’altra così: “Dopo aver visto in faccia il virus…” Ce ne sono altre, tantissime, ogni giorno scritte su carta o dette alla radio-tv. Fanno parte della sconfinata “valanga mediatica”, fatta di parole con cui scorre la narrazione del nostro infetto presente. Frasi quantomeno esagerate, però tipiche dell’attuale lingua della comunicazione. La prima frase è chiaramente una forzatura negativa, un ircocervo; la seconda, invece, è un esempio di parlar figurato. Nella prima categoria troviamo esempi di lessico degradato, come “fragilizzato”, “passivizzazione”, “lamentismo”, “aggregati di pretoriani”, “la gru accasciata su un palazzo” e soprattutto “Ho fatto una cavolata” per dire l’assassinio di una persona, nel caso specifico una donna.
Nella seconda categoria, e per fortuna, troviamo i virtuosismi del linguaggio più fantasioso ma fedele alla sintassi: il popolare “menare il can per l’aia”, il filosofico “il corpo a corpo fra il caso e la necessità”, il sociologico “sbattere in faccia le conseguenze dell’antropocentrismo” e, infine, la cronaca che parla di vittime, ahimé, quasi quotidiane: “la ferita del lavoro sanguina ogni giorno”.
Un diverso parlare, tutto nostro.
Paginetta dal Diario 2020
“Il silenzio funebre di Venezia in piena giornata di sole! Altro che la morte letteraria, oggi sentita come cascame dannunziano. Siamo nel vuoto profondo, nell’orrido del presente: lo si respira come un veleno che paralizza. Un amico ci ha mandato un video drammatico, privo di voci: mute immagini dei dintorni di San Marco registrate col telefonino: la città è sola. Nemmeno una persona, sono vuote prospettive di calli in fuga dallo sguardo, solo sparuti colombi e cielo vuoto, solo il rintocco di una campana e i passi del nostro amico che risuonano sul tamburo degli storici masegni.
D’improvviso, mentre scorrono le immagini della muta scenografia che ha saputo custodire tanta gloria, la voce del viandante quasi esplode. Ma, in realtà, è un sussurro: “Sono sconvolto”. Anche noi, anche Venezia, nostro mondo”.
Futuro
(poesia)
Devo lasciarti crescere, futuro,
perché tu possa accomunare in te
le movenze del pesce e del serpente.
Quando sarai diventato
anguilla adulta e avrai la coda duttile
come una frusta, allora le mie mani
non riusciranno forse a trattenere
la tua forza selvatica
e sguscerai con uno
scatto dei muscoli delle mie dita.
Fernando Bandini
(La mantide e la città, 1979)
Guardo Venezia e l’amo sempre di più.
La piazza più bella del mondo!
Non piango.
Venezia ce la farà.
È risorta tante volte e lo farà ancora.
Ho un solo dolore. Dove sono andati i veneziani veri?
Corrusponde a realtà la notizia che Bill Gate ( non so se si scrive così) ha comperato l’hotel Danieli?
Forza Venezia, forza veneti, dobbiamo farcela come sempre da soli.