Siamo diventati nervosi, come le marmotte guardiane viste in un documentario: il mondo ci tiene in ansia perpetua, non riusciamo a godere la ricchezza costituita dalla fluidità del presente. La pandemia è diventata una linea d’ombra, viviamo separati non solo dal nostro ieri, ma anche dal domani che pure – è stato detto – ci chiama con insistenza. Quella linea, come tutti i confini, si può attraversarla, beninteso: ma siamo appesantiti da dubbi, da timori, da lacci e lacciuoli. La pandemia ci sta invischiando.
Eppure, dice qualcuno, ci sono delle opportunità nonostante la precarietà del tempo. Per esempio, proviamo a rileggere il grande Italo Calvino. C’è una sua considerazione che ci riguarda, là dove dice: “L’attualità (che noi leggiamo pandemia) può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro”. Buttiamo l’ancora, dunque, in questo mare momentaneo, e riscopriamo/godiamoci la prossimità.
Paginetta di diario
Scriveva un anziano viaggiatore: “La primavera quest’anno si è aperta fra la notte e l’alba del 20 marzo anziché del 21, proverbiale primo giorno. Penso che accada così, a volte, alle puerpere che anticipano, inconsapevoli, il momento di donarci un nuovo grido alla vita. In ogni caso, oggi la brezza profumata da una parte, e i primi vagiti dall’altra – ovunque siano – esplodono in paesaggi desolati, in muti scenari che non promettono futuro. Eppure, nel clima di sospensione e di attesa disancorata dalla realtà, anche il solo pensiero che vi siano ancora, là fuori, nascite e profumi di natura aiuta a sopportare il peso del presente.” (2020)
Sono idee, e forse pietre
Assistiamo curiosi ma anche inquieti al processo di indurimento patologico di tante idee coltivate ai nostri giorni e in queste giornate pandemiche. Le parole che le esprimono diventano come pietre rosicchiate dal tempo. Una è “autonomia”, l’altra “verità”, un’altra ancora, invocata spesso, di recente, nella nostra Repubblica, è “libertà”. Tutte di un tale spessore, che per rivelarne il significato e la storia ci vorrebbe un libro per ciascuna: sì, anche le parole hanno una propria storia, nel senso che le loro radici vivono in un tempo e in un luogo, vengono cioè da una geografia e da un’epoca. Ma vaglielo a dire, tu, per esempio, a quei fanatici che hanno inalberato cartelloni con la richiesta di LIBERTA’ e si sgolano nelle piazze in cui dilagano in tempestosi fine settimana rubando libertà agli altri e minando spesso la loro sicurezza e tranquillità. Dovrebbero leggere La nuova manomissione delle parole di G. Carofiglio (Feltrinelli) dove libertà “è parola difficile da maneggiare, e più di altre soggetta agli abusi dei ladri di parole”.
Libertà, su certe bocche, significa semplicemente licenza, cioè anche disprezzo delle leggi della democrazia: “al diavolo la maggioranza, chi sono, poi?, pecoroni asserviti ai potentati”.
Chi si afferra alla propria libertà basata sull’istinto e non in comunione con gli altri – si chiama contesto – assomiglia a quei rivoluzionari ribaltatori di democrazie che fanno, e soprattutto disfano realtà civili, e alla fine dell’ambaradan si offrono all’Uomo del destino che scende in campo in quel preciso momento, premurosi di assicurarsi la libertà di non pensare, di non decidere, di non fare, di godersi lo spazio dell’aia dove razzolare entro un rassicurante recinto. Il loro mantra è: Faccia Lui (o Lei).
La piazza
(poesia)
Rituale quotidiano
il nostro
incontrarci
per caso
al mattino di tutti
i giorni.
Ma al crepuscolo
a volte
si vorrebbe fermarsi
avvolti
d’ombra prenotturna
e percepire il calore
altrui.
Invece
siamo come parole
scritte
in un cruciverba.
(Anonimo)