Un argomento di moda in questi giorni è quello del cosiddetto “big quit”, ovvero le dimissioni di massa che starebbero investendo il mondo del lavoro a livello globale in questo periodo che sembrerebbe essere successivo alla fase acuta della pandemia. Ma quanto c’è di vero? Quanto ciò può impattare direttamente la nostra vita e il nostro Paese?
Informazioni imprecise
Una prima considerazione deve necessariamente riguardare l’informazione. Spesso online si trovano articoli tradotti o ripresi da fonti estere, specialmente americane. Ma oltreoceano la cultura del lavoro è estremamente diversa dalla nostra, l’idea del “posto fisso” non è radicata (forse nemmeno esiste, in realtà). Anche le condizioni economiche, pur nella situazione di apparente declino statunitense sono differenti, con maggiori possibilità di guadagno e di riconversione delle proprie competenze e abilità in un mercato dinamico e generativo. In Italia, però, le cose non vanno esattamente in questo modo: la perdita (o la rinuncia) al lavoro significa un danno economico estremamente difficile da riparare in breve tempo nonché la perdita di status in una società ancora molto statica e stratificata.
L’alternativa, solo per alcuni: il reddito di cittadinanza
Queste considerazioni ci portano a considerare il reddito di cittadinanza come un’opzione, ma non per tutti. Chi ha un reddito superiore di più del 25% rispetto al RdC difficilmente può permettersi un periodo di personale recessione, considerate le scarse possibilità di ritornare realisticamente ai livelli pre-cambiamento. Chi ha una posizione di prestigio professionale difficilmente vi rinuncerà, considerata la scarsa mobilità che caratterizza il nostro paese. Oltre a questo vi è la realistica possibilità che il reddito di cittadinanza diventi quello che sarebbe dovuto essere fin dall’inizio, ovvero un ammortizzatore temporaneo che porta alla necessità di accettare un’offerta di lavoro: probabilmente si tratta di un giro di roulette che non tutti vogliono rischiare.
Il nomadismo digitale è un’opzione?
L’alternativa culturale al reddito di cittadinanza è il nomadismo digitale, ovvero costruirsi una professionalità da freelance che lavora completamente da remoto. La barriera, in questo caso, sta nelle competenze necessarie ma soprattutto nella cultura. Probabilmente si tratta di una strada percorribile per alcuni tra i più giovani, tuttavia le domande sulla sostenibilità di un’esistenza nomadica a lungo termine e sulla sostenibilità economica e sociale di una scelta così radicale devono sempre essere considerate. Probabilmente si tratta di un fenomeno che vedrà un’ulteriore espansione ma difficilmente diventerà “mainstream”, pertanto non può essere considerata una vera e propria alternativa al lavoro nella sua attuale concezione.
Non abbandonare, evolvere
Nel nostro paese, probabilmente, si giungerà ad un accomodamento tra passato e futuro, come spesso è successo nella nostra storia e nella nostra cultura. La maggioranza degli Italiani non sembrerebbe gradire l’idea di tornare a lavorare esattamente come nel 2019, ma quanti sono pronti a saltare nel vuoto? Allora bisogna ragionare in termini di sostenibilità di programmi di smart working, che magari possano integrarsi con la valorizzazione del territorio e del patrimonio immobiliare, della cultura e della conciliazione vita-lavoro. Difficilmente vedremo il “big quit” in Italia (ammesso che esista anche), e questo ci permetterà anche di tenere testa ad altre realtà, principalmente in Asia, in cui l’idea di smettere di lavorare non è contemplata. Non potremo mantenere accettabili livelli di benessere diffuso smettendo in blocco di lavorare, l’evoluzione può rendere la produttività e l’efficienza la nostra arma migliore per essere competitivi.