Lo smart working è stata una delle grandi “scoperte” – e insieme delle sperimentazioni – della pandemia, in particolare nel periodo di lockdown. Avviato da migliaia imprese anche in Veneto, in particolare in alcuni settori, lo smart working è stato in linea generale apprezzato da lavoratori e lavoratrici, anche se si lamentano alcune lacune e in parecchi casi si dice essere mancata la dotazione (di tecnologie e strumenti informatici, ma non solo). È piaciuto perché ha garantito più autonomia nella gestione del lavoro, in termini sia di spazi che di tempi. In particolare per le donne, sulle quali però – soprattutto nella fase iniziale – ha anche pesato di più il carico della gestione familiare.
La ricerca della Fondazione Corazzin
È quanto risulta, in grande sintesi, da un recente studio della Fondazione Corazzin, il centro studi di Cisl Veneto, per esplorare le tendenze del fenomeno in Veneto, dai mesi del primo lockdown nel 2020. La ricerca, condotta da Stefano Dal Pra Caputo e Francesco Peron, ha indagato un campione di 1330 lavoratori e lavoratrici della regione che hanno accolto la proposta di rispondere a un questionario sui temi. Oltre il 90% di loro ha avuto la possibilità di lavorare in smart working. E’ necessario però condividere il modello con i lavoratori attraverso la contrattazione. In larga parte (77,8%) i rispondenti si dichiarano infatti disponibili a continuare a lavorare in smart working (42,9% part-time e 29,4% full-time).
“Lo swart working deve partire dal basso”
«Per coglierne appieno le opportunità, serve “correggere” lo strumento dove necessario, regolandolo ad esempio nei tempi massimi di lavoro, nella reperibilità richiesta, nella dotazione di strumentazione – ha sottolineato infatti Gianfranco Refosco, segretario regionale di Cisl Veneto, nel seminario online di confronto e presentazione della ricerca svoltosi ieri –. Le imposizioni dall’alto non sono utili, sarà utile invece ascoltare e comprendere le esigenze di lavoratrici e lavoratori. E dare spazio magari a progetti che nascono “dal basso”, ossia dai lavoratori stessi». «In tal senso una nuova contrattazione su questo versante sarà fondamentale per costruire un modello condiviso con le imprese e anche per farne uno strumento utile ad accompagnare la ripresa di tante aziende che del lavoro agile continueranno a fare uso».
«Il fatto che lo smart working sia apprezzato – ha precisato Valeria Cittadin, responsabile del Coordinamento Donne di Cisl Veneto, – non vuol dire che non ci siano criticità da affrontare: ad esempio, è assai evidente come nella prima fase il carico del lavoro in casa sia ricaduto in buona parte (ancora di più) sul genere femminile. Terminato il primo lockdown la situazione è cambiata. Ma in generale questo è senz’altro un aspetto da considerare e da gestire meglio per evitare che ancora una volta le donne siano discriminate. Anzi, lo smart working può essere uno strumento utile per diminuire le disuguaglianze di genere».
Il tema della salute e sicurezza
Da parte sua Giada Benincasa, ricercatrice della fondazione Adapt, – che ha sottolineato come i dati delle loro ricerche su base nazionale siano complessivamente allineati all’indagine veneta di Cisl –, ha raccomandato: «Certo, è un cambio epocale che rende impossibile tornare al punto di partenza. Accanto ad altri aspetti da perfezionare, c’è da considerare pure un tema di salute e sicurezza, su cui serve crescere per garantire benessere. Perché la maggior parte dei lavoratori mostra di non percepire i nuovi rischi di questa modalità organizzativa, a partire dal diritto alla “sconnessione”».
L’esperienza delle imprese
Antonella Candiotto, presidente di Galdi srl, azienda trevigiana che produce macchine riempitrici per bevande e alimenti e fin da prima della pandemia utilizzava il lavoro agile, ha portato la propria esperienza: «Lo considero uno strumento potente che sollecita fortemente l’impresa a crescere. Perché le chiede una maturità culturale oltre che organizzativa».
Sostenitrice dello strumento già prima dello scoppio della pandemia, per Elena Donazzan, assessore all’istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità della Regione del Veneto,«il lavoro agile è senz’altro uno strumento da esplorare con convinzione e da promuovere, nel pubblico come nel privato: perché è innovativo, consente la mobilità e al tempo stesso la condivisione di gruppo, aiuta la produttività aziendale e il benessere delle persone, perché fa leva sulla responsabilizzazione individuale e incentiva la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Va però valutato con attenzione per evitare un uso distorto come alcuni casi nella pandemia dimostrano».
Lo smart working in Veneto
La ricerca ha indagato un campione di 1330 lavoratori e lavoratrici della regione che hanno accolto la proposta di rispondere a un questionario sui temi dello smart working. Il campione di persone, che per oltre il 90% ha avuto la possibilità di lavorare in smart working, è costituito per il 60,5% da donne e il 69,3% ha figli. In quanto ad età il 39,5% conta tra i 45 e 54 anni, il 29,8% 55-64 anni e il 20,7% 35-44 anni. La qualifica professionale della maggioranza degli intervistati (72,4%) è di impiegata o impiegato. A seguire, il 10,8% di loro è occupato e nella pubblica amministrazione e il 6,5% è insegnante o lavora nel mondo dell’istruzione. Il 95% ha contratto di dipendente a tempo indeterminato, ed esattamente il 79,3 è a tempo pieno e il 16,4% in part time.
Quasi l’80% dei lavoratori e delle lavoratrici raccontano che la loro azienda ha attivato o continuato sessioni di lavoro in smart working una volta terminato il primo lockdown (56,6% per alcuni giorni, il 21% tutti i giorni). Per il 61% non è stato necessario integrare le proprie conoscenze personali e per il 29,5% per cento invece lo è stato.
Smart working, la differenza di genere
Alcuni dei dati poi si fanno particolarmente interessanti se analizzati con una visione di genere. Perché se quelli che riguardano, ad esempio, il gradimento dello strumento sostanzialmente si equivalgono, le cose cambiano e le differenze compaiono. È infatti il 52,3% del campione femminile a dire di non essersi sentito più stressato contro il 57,4% del genere maschile. Viceversa il 33,4% delle donne contro il 24,4% degli uomini ad ammettere di aver sentito maggiore affaticamento. E ancora, per il 42,6% delle donne il carico lavorativo è risultato nel complesso aumentato, contro il 34% degli uomini.