Prima viene il tratto, che dà forma ai sogni. Quello minuto, preciso e assieme eterodosso, dedicato ai bozzetti delle installazioni. Quello tracciato col gesso, a pancia in giù, in fornace. Da lì discende, come logica funzione, tutto il resto: l’à-plat della tinta nelle tele, il rosso sontuoso, teatrale, usato con parsimonia nelle foto, persino la scelta dei materiali. È una questione d’identità e di purezza. Silvano Rubino è fibra d’artista a trecentosessanta gradi: parole e segni, fotografia, scultura, pittura. Classe 1952, veneziano, ha costruito una solida cifra connotante, gode di un suono intimo prezioso, coltiva il proscenio dell’esistenza. Sente con ogni cellula, azzarda. Mette in gioco l’incidente di percorso, la possibilità dello scarto improvviso, la rifrazione della luce sul cristallo.
Chi è Rubino
Per chi non lo conosce ancora, o per chi – pur conoscendolo già – abbia il desiderio di restare, ancora una volta, stupito dalla poliedricità del suo percorso, l’occasione è ghiotta: allo Spazio Spuma, fondamenta San Biagio 800R, Giudecca (dove Rubino ha stabilito anche il suo nuovo studio) è in corso fino al 24 ottobre un’esposizione abbastanza esaustiva dei diversi periodi dell’artista, curata da VeniceArtFactory e Contemporis ETS, in collaborazione con Galleria Michela Rizzo.
Alice nel paese delle meraviglie
Il titolo, How long is forever?, citazione da Alice in Wonderland di Lewis Carroll, rappresenta un monito preciso: varcando la soglia, al di là dello specchio, si privilegia una dimensione diversa e, a suo modo, straniante. Non è un criterio meramente estetico ad ordinare le opere di Rubino: se posseggono, almeno in apparenza, tutti i crismi di una solida arte concettuale, ci si accorge ben presto di aver a che fare anche con altro. Il rapporto pensante con le cose del mondo, via via che l’artista stesso, con tenerezza e rigore, racconta la genesi dei lavori, si trasforma in un processo empirico, meditato, di costruzione dei giorni. Allora si percepisce che l’opera di Silvano è un fare, prima che un’asettica teoria. Nel suo fare, accade ciò che ancora non è: la realizzazione di un progetto.
Il senso di Rubino
Il suo sentire è radicalmente alternativo rispetto ai modelli della bottega contemporanea: opera suggestiva, trasmutazione del ricordo. Rubino possiede troppa intelligenza emotiva e profonda curiosità per esibire risposte stereotipate. Le sue sedie in vetro su cui non ci si può sedere, i lacerti grafici kafkiani, le installazioni memori di rivoluzioni rinascimentali (e l’ombra di Piero della Francesca a dare la misura dello spazio), ci dicono che l’arte è un essere possibile, un essere in viaggio. Viaggio particolare, appunto labirintico, comunque riflessivo, nel quale più si cammina e più si penetra in sé; contemporaneamente, un esodo da sé, per poi ritornare. Un aspettarsi, al ritorno.
Specchio e filosofia
Riecheggiano le digressioni del filosofo Paul Virilio, quando sostiene la contemporanea perdita del senso della terra da parte del presente storico. Silvano no, il suo senso della terra – che poi è radice e figli, pennelli, vetro, marmo, ma anche video e linguaggio verbale – c’è ancora tutto.
Lo stato di grazia che pervade le sue installazioni deriva dalla padronanza estrema dei media che utilizza, ma anche dalla coscienza che andare oltre lo scontato, oltre ogni comoda apparenza, è un’assoluta necessità. Anzi, è qualcosa che non riguarda del tutto il soggetto agente, l’artista che segna il campo, così come la rosa di nessuno di Paul Celan sboccia senza aver bisogno di essere guardata per fiorire.
La liberazione
Il gesto è anche liberazione dell’energia contenuta nella materia: il linguaggio di Rubino rappresenta la sua utopia. Utopia della forma trascesa, visione di altre dimensioni, metafotografia, impercettibile fulgore di uno sguardo femminile che appare dal sipario, proiezioni oniriche (violente, tragiche come solo i sogni possono apparire). L’uomo appartiene alla sua opera, così intensamente da sembrarne distaccato.
Rubino e le sue cronache
Il resto è ermeneutica, del testo e del contesto. Cronaca di storie: la via brasiliana a Kafka, onnivora, totalizzante; immagini aurorali di liberazione, campiture di luce assoluta, scherzi sintattici, diari di bordo del contemporaneo. Ciò che più conta è che l’arte di Silvano Rubino non è fatta per stare sola. Per vocazione, si apre all’Altro: con responsabilità, senza inganni. Ci sono tavoli a cui non ci si può sedere, esistono letti che non danno riposo. Può esserci la caduta, nella fuga, ancora e ancora. Così è la vita, persino opaca, a volte. Sta nell’intervallo, però, nell’impeto della donna che corre e ancora non sa, il tempo dell’amore.
Stupende opere dense di significati a volte palesi ,a volte nascosti…Rubino,artista poliedrico raccontato magistralmente da Francesca Brandes