Lo chiamavano “Kociss”, e anche se quel soprannome non gli piaceva, gli calzava a pennello. Del grande capo apache, reso famoso dai western americani, ne aveva tutto l’aspetto: alto, forte, lineamenti marcati, pronto a scattare come un giaguaro. Di professione faceva il ladro, ma non un ladro qualsiasi. A Venezia, dove i palazzi sono spesso talmente vicini che quasi si toccano, sapeva saltare di tetto in tetto come un gatto, lasciando con un palmo di naso chi cercava di bloccarlo. Lui, poi, aveva un codice d’onore tutto suo. Intanto, rubava rigorosamente solo ai ricchi; poi, appena poteva, con quello che gli entrava in tasca dava una mano a chi sapeva in difficoltà. Un particolare non da poco, che accomuna solo i grandi avventurieri romantici e che – manco a dirlo – lo aveva reso popolarissimo nel sestiere di Castello, dove era cresciuto con la madre ed otto fratelli.
Kociss non solo a Venezia
Ma anche oltre i confini di Venezia si era ormai fatto un nome. Quando in certi ambienti si cercava chi contava in laguna, ecco che spuntava regolarmente il suo nome. Era una notorietà, diciamo la verità, meritata, perché il nostro personaggio non solo aveva carisma, la dote naturale di chi è nato per fare il capo, ma conosceva ogni angolo, anche il più segreto, della sua città. Sapeva apparire e sparire all’improvviso come un fantasma, facendo impazzire tutti. Il coraggio con cui portava a termine le sue imprese, l’abilità con cui si faceva beffe di chi gli dava la caccia, alla fine gli avevano fatto guadagnare il rispetto anche di chi gli dava la caccia senza tregua. E ovviamente un posto di rilievo nella complicata gerarchia della malavita Veneta. Malgrado tutto, però, non si era mai montato la testa e la sua generosità era diventata proverbiale. Quando era libero, non era raro, sotto Natale, scoprirlo indaffarato ad accatastare pacchetti infiocchettati in Piazzale Roma. Li metteva con cura su un carrettino in ferro, che i facchini della piazza gli prestavano volentieri. Poi portava personalmente tutto a Santa Maria Maggiore, il vicino reclusorio veneziano dov’era di casa. Erano i regali per i suoi amici in carcere. Ed erano tanti.
Bandito gentiluomo
Silvano Maistrello, l’ultima primula rossa veneziana, il bandito gentiluomo che si vantava di non aver mai fatto del male a nessuno, quello abituato a guardare Venezia dall’alto, sfidando come un acrobata polizia e carabinieri, quando è morto non aveva ancora trent’anni. Ma era già entrato nel mito. E non solo per le sue evasioni, clamorose quelle dal tribunale di Venezia a Rialto e dal carcere di Treviso, ma anche per la sua stessa fine: colpito a morte, dopo una rapina alla sede centrale del Banco San Marco, subito dietro la Basilica. Stava fuggendo come tante altre volte, pilotando un barchino dalla prua impennata, ed era ormai quasi alla fine del rio che costeggia San Giovanni e Paolo, quando era apparsa come dal nulla una pattuglia della polizia.
Kociss. E già si racconta che qualcuno ha tradito
Non era lì per caso, lo aspettavano ed è quasi certo che qualcuno lo avesse tradito. Ma non ci fu nessun conflitto a fuoco, come venne poi scritto. Almeno da parte di Silvano, perchè dalla P38 che impugnava, come provò mesi dopo una perizia, non partì nemmeno un colpo. Due proiettili, invece, esplosi da un mitra degli agenti non gli avevano lasciato scampo. Quel giorno, per lui che la morte aveva già sfidato tante volte, era calato improvviso il sipario. E nemmeno il giubbotto antiproiettile che indossava era servito a niente: i colpi letali s’erano infranti sul motore fuoribordo da dove una scheggia era schizzata sotto l’ascella, uccidendolo.
Era il 12 maggio del 1978, un anno terribile
Tre giorni prima della sua morte, al termine di un sequestro che durava dal 16 marzo, era stato assassinato a Roma dalle Brigate Rosse Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Per quasi due mesi polizia, carabinieri, servizi segreti italiani e stranieri avevano cercato dovunque la sua prigione. Erano stati scomodati perfino dei sensitivi, ma senza nessun risultato. Moro non si trovava o non si voleva da parte di qualcuno trovare.
Si arriva a chiedere l’aiuto di Kociss
Ed è in questo periodo, ad alimentare un mito sempre vivo, che negli ambienti dell’antiterrorismo il nome di Silvano era spuntato a galla. Lui aveva conosciuto in carcere Curcio e soprattutto Prospero Gallinari, pezzo da novanta delle BR, custode dello statista pugliese. Forse, secondo i vertici della Digos era la persona giusta per un contatto importante: Gallinari avrebbe potuto dargli delle informazioni decisive. Se la sentiva di dare una mano? La richiesta, mentre al solito era latitante, gli era arrivata tramite la moglie e ci aveva pensato su. Poi, il 9 maggio si era deciso e aveva detto di sì. Ma era troppo tardi, in quello stesso giorno il martirio di Moro era arrivato all’ultimo atto. Per la sua fine, invece, e certo non poteva saperlo, bisognava aspettare ancora soltanto tre giorni.
Kociss, un Lupin moderno senza tempo
L’avventura terrena dell’ultima primula rossa veneziana era finita così, ma il romanzo postumo del Kociss, la leggenda del ladro che rubava ai ricchi per aiutare i poveri, era appena agli inizi. Su di lui, il Papillon della laguna, fioriranno infatti da quel momento commedie, ballate, biografie di successo e soprattutto i racconti che nei “bacari” di Castello la sua gente gli dedicherà con orgoglio e rimpianto. E sarà l’ultima saga lagunare che si ricordi, questa volta dedicata al figlio prediletto, che non sopportava nessuna catena e si divertiva a giocare a rimpiattino con polizia e carabinieri. Lui che riusciva a cavarsela in ogni situazione rischiando sempre la vita con il suo carattere generoso ed impulsivo, che lo portava qualche volta a fidarsi anche di chi non lo meritava.
L’unico punto debole
Aveva un solo lato debole, se è giusto dire così: un sentimento tenero, assoluto, verso la giovane moglie Luigina Chiozzotto, che amava più di se stesso e che spesso era costretto a lasciare sola. Al punto da rischiare una volta anche la cattura pur di smentire le chiacchiere di troppi maldicenti. Lo aveva fatto accettando un’intervista al Gazzettino, l’unica che avesse mai concesso, mentre le Procure di mezza Italia lo stavano cercando da tutte le parti. Quella volta aveva rischiato grosso, con una gazzella dei carabinieri che lo aveva tallonato senza saperlo lungo la Triestina in piena notte. Lui però aveva proseguito tranquillo, senza scomporsi. E gli era andata bene. Ma era fatto così, senza mezze misure, soprattutto quando si trattava dell’amore della sua vita.
Il funerale
Al suo funerale, pochi giorni dopo quella sfortunatissima rapina a San Marco (e non se ne conoscono altre di lui, perché il suo vero mestiere come abbiamo detto era un altro) tutta Castello affollava campo San Giovanni e Paolo. Molti che l’avevano conosciuto fin da bambino, piangevano, compreso un anziano commissario di polizia che nascondeva gli occhi dietro grosse lenti scure.. Stavano tutti in circolo intorno alla bara, che avevano salutato al suo arrivo con un’interminabile applauso.
L’erede improprio di Kociss
Ma ad un certo punto, come se l’aspettassero da tempo, di bocca in bocca era corso rapido un avviso: “sta arrivando, sta arrivando”. E si erano aperti a ventaglio a far da corona all’ospite illustre, venuto per l’ultimo saluto a Silvano. Chi era? Felice Maniero, Felicetto. Aveva allora 24 anni, non era ancora l’incontrastato re della mala del Brenta, l’uomo della rapina al casinò, il boss che spadroneggerà a Venezia negli anni Ottanta, ma godeva già di grande considerazione negli ambienti della mala. Soprattutto era considerato l’erede naturale del Kociss. Un erede improprio, magari, visto che Silvano Maistrello, l’uomo che correva sui tetti, non aveva mai sparato o ucciso nessuno, però era così.
Ora riposa a San Michele
Dicono le cronache che quel giorno Maniero era tutto vestito di bianco e che a fargli ala c’erano le sue guardie del corpo, anche loro in completo da cerimonia. Perché il Kociss delle saghe lo meritava e lui, che lo considerava un vero amico, era venuto a salutarlo per l’ultima volta. Ci sono delle fotografie che testimoniano la scena. Sembra uscita, pari, pari, da un film degli anni Trenta e quello che più colpisce sono gli attori intorno alla bara in una location mozzafiato. Che forse nemmeno Silvano, nei suoi sogni più belli, avrebbe potuto immaginarsi per il suo ultimo viaggio verso San Michele.
emolto fantasioso,e l inormatore della soffiata della banca che poi causo la morte fu savino con il soppranome di candela (e stato sfortunato per quanto riguarda la sua morte , una pallotola entro nel suo fianco su l apperturadel giubino anti proiettile)e non era assolutamente vero che amava sua moglie che era una onna frivola anzi la detestava .i funerali glieli feci io con i miei soldi.perche quando mori non aveva il becco di un quattrino.di faccia d angelo nemmeno l ombra e i funerali si fecero in via garibaldi ,nel rione di castello dove era nato e viveva la sua famglia e viveva sua madre questa si che amava tanto era un uomo che sarebbe potuto diventare un campione sullo sport,aveva una semplicita non usuale per il personaggio che si decanta scrvo questo perche le barelette sono barzelette e la realta e tutt altra cosa.
dove hanno inventato questa storia ?io ero il cognato in quei tempi….
Se la vita si fa’ dura i duri cominciano a giocare
a diferenza di silvano maniero e’ un assetato di sangue,e per non fare la galera se vestito da pentito falso;ogni modo maniero e ‘ un vigliaco che picchia ,le donne mentre silvano le amava, felice ti auguro il peggio nella tua vita da boja,
a diferenza di silvano ,maniero fa il pentito perche ha paura di fare la galera