Si definisce un suggeritore, Luca Campigotto. Sostiene che i fotografi sono come i pugili, che vanno, colpiscono, poi tornano indietro. Secondo il critico statunitense Marvin Heiferman, oltre lo sguardo indagatore del banco ottico, Campigotto possiede «una sensibilità assolutamente romantica».
Tutto vero: le diciassette fotografie di grande formato esposte in American Elegy, la mostra appena inaugurata alla Bugno Art Gallery di Venezia (e destinata a durare fino al prossimo 3 luglio), colpiscono per magnificenza, sono smisurate per potenza evocativa e carica simbolica.
Un “On the road” per Luca Campigotto
Suggeriscono, appunto, visioni: l’America on the road, il mito del West, i canyons della Monument Valley; le ghost towns, o le località ormai quasi abbandonate, ma non svuotate d’eco, in cui Luca immagina di abitare: «E un pick-up GMC anni Cinquanta con la scritta Campigotto photography sulla portiera»; magari uno studio di mattoni rossi battuto dal sole e dal gelo con «due grandi finestre che guardano una stradina secondaria». È la Butte, nel Montana, che fotografò Robert Frank, ma anche molto di più. È una stratificazione di memoria.
La mostra
Le immagini in mostra a Venezia – allestite con purezza formale – sono solo una parte delle settanta presenti nel catalogo per i tipi di Silvana Editoriale, che annovera contributi critici di Walter Guadagnini, Mauro Pala e Roberto Puggioni. Più di ogni parola, tuttavia, colpisce la «dismisura dell’emozione» che ha notato Guadagnini, con efficace preveggenza. O «quel colore bastardo, – la definizione è dello stesso Campigotto – cinematografico, da reinventare ogni volta».
Luca Campigotto e la folgorazione di Blade Runner
È trascorso molto tempo da quando Luca utilizzava religiosamente il bianco e nero, in analogico, «lavorando in camera oscura con lo zelo di un iniziato». Tutti ricordano il suo formidabile esordio, con quel volume Venetia Obscura del 1995, il primo di una serie dedicata alle città in notturna. Lui, folgorato dalla visione (anche quella serale), di Blade Runner nel 1982. Il percorso di Luca Campigotto, veneziano, classe 1962, è segnato dalla forza dell’immagine e dall’amore per la narrazione: già la sua tesi di laurea in storia moderna, sulla letteratura di viaggio nell’epoca delle grandi scoperte geografiche, dice tutto.
Il raccontarsi anche con il colore
Campigotto decide di raccontare il paesaggio, e di raccontarsi. Ovunque intravveda l’avventura, la possibilità di scoprire territori inesplorati, oppure la traccia di luoghi che vanno perdendosi, lì si ferma e ritrae. Rigorosamente senza presenza umana. Nel 2006, la svolta: la scoperta del colore, quando inizia a stampare le proprie immagini in digitale.
Una scelta che cambia lo stile ma non l’attenzione
È una scelta che modifica sicuramente lo stile dell’autore, ma non la sua metodologia di ripresa, contraddistinta – sempre –da un’estrema precisione nell’inquadratura, attenzione a visualizzare, cura nella fase di stampa: «Mi è sempre piaciuta la lentezza vagamente cerimoniosa della macchina in grande formato montata sul cavalletto» commenta.
Il risultato sono queste immagini iperdefinite, quasi dolorose nella precisione dei dettagli, come solo il banco ottico consente; una luce pervasiva, al limite della tenuta fisica, che taglia come sciabola; tensione e potenza, come il pugno sul ring. Qualcosa di talmente reale, da non esserlo più integralmente. Persino le didascalie di American Elegy, annotate semplicemente sul muro, come un appunto preso in fretta, appartengono contemporaneamente alla realtà e alla fantasia. Perché il viaggio di Luca si dipana secondo coordinate che appartengono all’immaginario, non alla topografia dei luoghi. La realtà è l’innesco, non il fine dell’immagine.
Luca Campigotto dal viaggio nel futuro alla vita di oggi
È la stessa funzione di Blade Runner, una connotazione drammatica, veloce, profonda. L’America di Luca, che vive tra Milano e New York, è l’America dei suoi sogni, breviario della molteplicità che possiede una funzione narrativa simbolica, territorio del possibile che indica, ma non definisce integralmente. Il sogno di generazioni, tra Morricone, Hopper, Bob Dylan e il Bronx, tra panorami sconfinati e periferie urbane, da Ridley Scott a Francis Ford Coppola. Senza tralasciare «la meraviglia della neve sporca ai crocicchi delle strade». Il particolare non stupisca: la visione di Campigotto gode di una distorsione benefica. Quello che gli interessa, più di una visione oggettiva, è la struttura poetica dell’immagine. Anzi, il suo senso lirico. È questo a giustificare la dismisura dell’emozione, la gigantesca intensità delle storie.