Nei due incontri precedenti abbiamo visto come un gruppo vario e significativo di intellettuali e musicisti si sia per alcuni anni confrontato con l’obiettivo di cantare la cronaca ottenendo risultati importanti specialmente sul piano della mobilitazione culturale di una generazione che stava rapidamente abbandonando la depressione culturale e in parte anche economica dell’immediato dopoguerra. Oggi incontreremo altre persone che con mezzi e finalità diverse, su tutto il territorio nazionale hanno per secoli cantato le storie e la storia e ancor oggi continuano a farlo, seppure in condizioni diverse.
I fatti di cronaca
L’insieme di fatti di cronaca narrati, documentati in vario modo o anche semplicemente depositati nella memoria comune vengono a costituire i mattoni con cui dare consistenza a quella che chiamiamo conoscenza o ancor meglio competenza storica.
Quindi una ricerca sociale che non si rivolga ad epoche così lontane da avere testimonianze depositate solo in archivi di varia natura, ma che vada ad indagare su materie, esperienze, conoscenze, consuetudini, testimonianze ancora presenti negli atti o nella memoria conservata in un gruppo omogeneo, tale ricerca deve ancor oggi tener in grande conto la cronaca, anzi le cronache, poiché talvolta le discordanze su eventi e giudizi rivelano molto più che concordanze “di maniera”.
Le prime voci della cronaca che ci capita ancor oggi di incontrare con un po’ di lavoro sul campo, ma che fino a ieri era impossibile “scansare” nelle piazze di tutta Italia dal nord al sud, nelle feste patronali e civili, nei mercati e nelle fiere, in feste pubbliche e persino private, erano le voci dei Cantastorie. Voci diversissime, in lingue tra loro incomprensibili, con stili e storie assolutamente lontane tra loro, ma tutte tese a trasferire da una parte all’altra del proprio territorio i “fatti” da quelli di ieri e dell’altro ieri, in un mondo senza strumenti di comunicazione di massa e ricco di analfabeti, a quelli di un passato spesso indefinito, collocato tra storia e leggenda.
Le diversità
In questi due ascolti si può cogliere la grande diversità tra la natura del cantastorie settentrionale e quello del sud. I cantastorie emiliano-romagnoli arrivano in piazza quasi in un gruppo di quattro persone, con ricchezza di voci e di strumenti, ma anche con oggetti da offrire al pubblico che vuole soprattutto divertire, anche se non mancano momenti drammatici nel loro repertori.
Il cantastorie siciliano è il grandissimo, il più grande sostengono molti, Cicciu Busacca, di cui mi onoro di essere stato amico oltre che compagno in alcuni concerti dopo che dedicò al teatro l’ultima parte della sua vita. Siciliano, autodidatta, secondo la SIAE non doveva essere riconosciuto come autore delle sue innumerevoli opere, in quanto non capace di superare la stupidissima prova di idoneità a quel tempo indispensabile per essere ammesso a percepire i diritti pagati all’erario per l’esecuzione delle proprie opere. Da anni ormai quell’insulto all’intelligenza non c’è più, ma Cicciu ha dovuto sostenere la prova sette volte per avere i suoi soldi, con i quali manteneva la famiglia.
Il mio ricordo
Nel 1976 Cicciu venne per lavoro a Venezia e la mattina successiva al suo spettacolo arrivò con la sua chitarra nella mia scuola, allora insegnavo da due anni in una scuola elementare a tempo pieno di Mira. L’avevo avvertito che avrebbe trovato oltre ottanta bambini di sei/sette anni, tutti veneti, ma non si scompose. Ho pensato che avrebbe cantato un paio di canzoncine e poi avrebbe salutato tutti, ma la cosa durò quasi due ore con entusiasmi e applausi alle stelle e lui che si divertiva come un matto, prendendo tutto molto sul serio.
Ho recuperato un paio di foto dell’evento. In una ci sono due ragazzi di seconda elementare al loro turno di intervista con il registratore e nell’altra un settore della folla dei bambini accatastati su tavoli, su qualche sedia e per terra. Vi assicuro che non ho mai più visto una cosa del genere in tanti anni di onorato servizio.
Lorenzo De Antiquis
Conobbi Lorenzo De Antiquis nel 1981 che orgogliosamente, e con buon merito, svolgeva dal 1947 il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana Cantastorie Ambulanti (AICA), da lui stesso fondata e guidata fino al 1999, data della sua morte.
Lucia De Antiquis
Questa rara foto, tratta da un vecchio numero della benemerita rivista “Il Cantastorie” oggi trasferita su internet, è stata scattata al mercato di Soresina (Cremona) nel 1916 e ritrae Lucia De Antiquis alla chitarra con il suo compagno, il violinista Romolo Bagni e il suo bambino di sei anni, Lorenzino, che si avviava così alla carriera di Cantastorie
Il mondo dei Cantastorie
Entrai così in contatto con un mondo mitico che credevo di conoscere, ma che in realtà avevo solo immaginato ascoltando storiche ballate più o meno recenti.
I Cantastorie della mia fantasia erano coraggiosi cantori delle vicende popolari, aedi della lotta di classe, poeti erranti della cultura proletaria, punto. Insomma un’icona a tutto tondo di quella che chiamavamo “ cultura alternativa”.
E’ facile comprendere il mio stupore quando mi trovai di fronte ad un anziano con cravatta e basco accompagnato da uno strampalato personaggio con una giacca a macchie e un gran cilindro scalcagnato in testa che si accompagnava con una “caccavella” ottenuta da un gran vaso di conserva. Si trattava di Giovanni Parenti detto “Padela”, Cantastorie di lungo corso e tra i fondatori dell’Associazione.
Ma ancor maggiore fu il mio stupore quando avviarono il loro spettacolo: battute, barzellette, canzonette allusive o di moda, storie buffe o grottesche si intersecavano con qualche storia drammatica di tradimenti, assassini o prodigiose grazie ricevute. Mi stavo convincendo di aver sbagliato Cantastorie. In realtà questi erano i Cantastorie Padani. Un po’ guitti, un po’ imbonitori, venditori di un prodotto impalpabile, la parola, che dovevano condire con oggetti il più delle volte inutili, ma essenziali per raggiungere l’unico vero obiettivo di tanto lavorio: sbarcare il lunario. In un’Italia povera, affamata e ignorante erano i depositari dell’informazione popolare, illuminavano la notte della conoscenza di centinaia di persone con storie e racconti che sapientemente mescolavano in una specie di avanspettacolo dei poveri con lo scopo di mantenere coeso il “treppo” (il gruppo degli ascoltatori formatosi spontaneamente), senza il quale non si mangiava.
In viaggio sempre insieme
Il successo non era dettato dagli applausi, quelli bastano a chi è già pagato per la sua esibizione, il cantante, l’attore di teatro, il comico. Il cantastorie i soldi doveva farli uscire lì, da quelle tasche derelitte ed è la somma di tutte quelle monetine che a sera determinava l’insuccesso o il successo del lavoro.
Le canzoni facevano da attrazione: mentre uno o due cantavano, gli altri giravano per il Treppo. Per questo i Cantastorie dell’Italia settentrionale viaggiavano sempre in gruppo, mentre quelli del sud, in particolare i grandissimi siciliani, si presentavano prevalentemente da soli con i loro cartelloni e le loro storie straordinarie.
Nelle ballate dei Cantastorie, come in tutte le narrazioni, non troviamo la cronaca asettica degli eventi; il cantastorie entra nel merito, si schiera, esprime pareri e giudizi, in questo modo influenzando e facendosi influenzare.
Esprime il dolore dei popolani italiani il cantastorie toscano Anton Francesco Menchi quando intona “Partire, partirò, partir bisogna/ dove comanderà il nostro sovrano..” in seguito alla leva obbligatoria imposta da Napoleone nel 1799, e il canto si diffonderà in tutto il nord Italia e conoscerà anche una bellissima versione veneta.
“Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio”, che il Cantastorie Pietro Cini scrisse nel 1873, accompagnò i nostri emigranti negli USA. Il tema musicale, forse preesistente alla stesura del testo, divenne per tutti “L’aria di Caserio” sulle cui note furono eseguiti molti altri canti, tra i quali “Sacco e Vanzetti” nel 1927.
I cantastorie dal dopoguerra a oggi
Le vicende del dopoguerra sono state puntualmente riportate dai Cantastorie a noi più vicini: l’emiliano Marino Piazza, o meglio Piazza Marino come lui si faceva chiamare, clarinettista e cantore, ha raccontato “L’attentato a Togliatti” e “L’immane sciagura nella miniera di Marcinelle in Belgio”. Il pavese Adriano Callegari, cantante e sassofonista, ci ha raccontato “La tragedia di Mattmark”.
In questa foto vediamo riuniti i cantastorie più noti di Pavia. In primo piano Adriano Callegari con il suo saxofono, sul fondo i coniugi Cavallini: Vincenzina alla batteria e Angelo alla fisarmonica. Entrambi ottimi cantanti.
Se la chitarra può essere considerato lo strumento fondamentale del cantastorie centro meridionale poiché permette il dialogo uno a uno con il pubblico, la fisarmonica dalla seconda metà dell’ottocento in poi diventa lo strumento dei cantastorie del nord per la sua possibilità di trasformarsi in “piccola orchestra autosufficiente”.
Ultimo ma non ultimo Franco Trincale
Franco Trincale, siciliano trapiantato a Milano, ancor oggi, anche se l’età non gli permette di esibirsi in piazza, punteggia con le sue storie le vicende politiche italiane e internazionali.
Potremmo continuare l’elenco e mostrare così come l’unità culturale dell’Italia debba molto anche alla tradizione orale e ai Cantastorie.
Chiudiamo con una bella intervista in parte cantata di Franco Trincale che rappresenta in qualche modo un ponte tra le due realtà così differenti che abbiamo incontrato all’interno di figure identificate con lo stesso nome di Cantastorie. E’ siciliano e continua ad esserlo benché viva da decenni a Milano, canta nella sua lingua materna e anche in italiano, racconta storie del suo paese natale, ma anche della città che lo accoglie e del mondo intero.
Lasciarci con la voce di Trincale che canta e racconta, forte di una esperienza difficilmente ripetibile, ci permette di raccogliere dalla viva voce di un protagonista la convinzione e la fatica con cui si è vissuta e ancora si vive la vita del Cantastorie.