“Il Covid ha rubato molto a tutti noi, musicisti e non solo. La musica accompagna le tappe più importanti della vita, da quelle più gioiose, fino alle più tristi, come i funerali, lo abbiamo chiaramente visto. Si può immaginare un’esistenza che ne è privo? Sarà un pensiero semplice, ma la musica, i concerti dal vivo mancano davvero a tutti. A chi li fa, a chi li ascolta”.
Sorriso aperto e battuta sempre pronta, nonostante il periodo difficile: parla Chiara Parrini, primo violino dei Solisti Veneti e artista di fama internazionale. Generosa nel raccontare di sé, spontanea e sincera, non si è risparmiata, partendo con la domanda forse più difficile, la nota più dolente – è proprio il caso di dirlo -, riguardo lo stato di salute della musica e dei musicisti, dopo quest’anno così duro.
“Se parlo come docente, non posso lamentarmi perché la vita scolastica nei Conservatori non si è fermata, pur con difficoltà e limitazioni. Da musicista, invece, non sto affatto bene. La musica e i musicisti stanno soffrendo tanto e quello che rende la situazione ancora più amara è la mancanza di una luce, perché la ripresa sembra davvero lontana”.
Cosa pensa del compromesso, ovvero i concerti di musica senza pubblico, in streaming o registrati?
“Un musicista professionista, per mantenere un certo livello, deve studiare costantemente. Gli appuntamenti con il pubblico, i concerti “veri” e importanti danno una grande spinta, una motivazione forte a questo studio, che richiede ore e ore, e tanta concentrazione. Certo, l’impegno e la professionalità non vengono a mancare anche di fronte a una telecamera o a un teatro vuoto, ma ci si sente demoralizzati, lo studio diventa ancora più difficile. Una soluzione si sarebbe potuta trovare: riaprire teatri e sale da concerto un poco alla volta, senza invece imporre il totale silenzio – anche perché sono certamente luoghi più sicuri di altri. Io in generale tendo a fidarmi di chi ci guida, ma davvero c’è stata poca voglia di spendersi per l’arte. Ora stiamo a vedere, a fine marzo, chissà…”
Parlando di concerti “veri”, cosa viene in mente quando sale sul palco?
“Quand’ero piccola, ai primi saggi in Conservatorio, pensavo a non sbagliare le note, pensavo ai genitori che mi ascoltavano, a non fare la classica brutta figura. Il timore era quello di commettere errori, dopo tanto studio, e di deludere. Oggi, invece, il primo pensiero è “Chiara, attenta a non scivolare sui tacchi”! A parte gli scherzi, anche se il rischio non è da sottovalutare, con il tempo e l’esperienza si matura. Quando salgo quei gradini, che chiamo “i tre gradini del coraggio”, riesco a pensare finalmente alla musica, a me stessa, a godermi davvero il momento. Si impara a gestire l’adrenalina, ma emozione e coinvolgimento non si attenuano, restano vivi, vibranti”.
Restiamo sempre in teatro, sperando sia di buon auspicio: qual è il pubblico migliore?
“Mi hanno sempre insegnato a non fare distinzioni: l’impegno dev’essere il medesimo a prescindere dagli ascoltatori che si hanno davanti (certo, magari non quelli che sgranocchiano patatine e bevono coca cola in prima fila…). Se devo però esprimere un parere, dico che i migliori sono i bambini, i ragazzini: sono più attenti, più curiosi. Durante le lezioni concerto fanno domande che dimostrano interesse, partecipazione. E poi ci sono gli habitué, i signori di una certa età, seri, composti, che non si perdono un concerto. Forse manca, o è poco rappresentata, la fascia di mezzo, quella dei giovani, dei giovani-adulti, ma ci sono tanti ragazzi che studiano, che amano la musica classica, dunque prima o poi anche loro verranno ai concerti e saranno il “pubblico migliore”.
La prima volta in concerto, sul palco, com’è andata?
“Ho due prime volte, in realtà. Il primo saggio, quando avevo circa dieci anni, in Conservatorio. Ricordo che mi tremava tantissimo il ginocchio destro e di aver suonato per tutto il saggio con il peso su una sola gamba. Una cosa scomodissima! Poi c’è stato il primo vero concerto, quello vissuto come “inizio carriera”, con i Solisti Veneti. Mi ricordo ancora la data: 2 ottobre 1989! Si teneva nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano. Dal palco, un colpo d’occhio pazzesco: avevo davanti mille persone. Una sensazione indescrivibile. Ma c’è un’altra prima volta, quando il Maestro Scimone mi ha preso in considerazione come solista, tra l’altro comunicandomelo solo un paio di settimane prima. Venezia, Chiesa di Santo Stefano, in programma “L’estro armonico” di Vivaldi. Una grande responsabilità”.
Tra gli innumerevoli successi, c’è stato un concerto più difficile o meno riuscito di altri?
“Prima della pandemia andavo negli Stati Uniti una o due volte all’anno. Lì vivono i miei due fratelli musicisti e durante il mio soggiorno tenevamo dei concerti. Con Fabio, pianista, suonavamo nell’Università dove insegna, spesso con programmi davvero “tosti”: Corelli, Mozart, Brahms, Franck. Sonate molto impegnative, di compositori di diverse epoche e stili. Ecco, forse in quelle occasioni, per ottenere il risultato migliore, ho sentito la fatica di interpretare. Però in generale non ricordo concerti difficili o “brutti”. Solo quando c’è tanta stanchezza, per esempio perché i concerti sono uno dietro l’altro, magari in luoghi diversi e lontani, allora le cose si complicano e si rischia di vivere male momenti in realtà sempre meravigliosi. Sembra di sprecarli”.
Ha citato il Maestro Claudio Scimone e sappiamo quanto la sua carriera nella musica sia legata a questa grande figura di musicista: com’è nato il vostro sodalizio musicale?
“Mi ha preso come una figlia e mi ha sempre trattato con riguardo. Ogni tanto mi dava anche qualche strigliata, ma sempre con affetto. Ricordo una volta che non avevo con me una parte e ho iniziato a scusarmi dicendo: “Maestro, io pensavo…”. Mi ha subito frenato: “Tu non sei qui per pensare, ma per suonare”. Poteva gelarti con una frase, ma lo faceva sempre con rispetto, con educazione. Se sono qui, se ho fatto questo percorso, è grazie a lui. Certo, ho studiato, e pure il doppio, perché anche in questo campo, una donna deve sempre rendere due volte rispetto a un uomo per farsi strada, ma senza il Maestro Scimone non sarei qui. Era un uomo di grande carisma, di fine intelligenza e di una furbizia “onesta”: sapeva fare le scelte giuste, di interpreti e di repertorio, per ottenere sempre il meglio. Ha dato un contributo unico alla scena musicale italiana, ha fatto la storia, visto che i Solisti Veneti hanno 60 anni e non è facile per un’orchestra o un ensemble avere vita così lunga. Ma devo molto anche ai miei primi insegnanti: ho iniziato a studiare violino da giovanissima e a nove anni già frequentavo il Conservatorio. Mi sono diplomata che non ne avevo ancora diciotto e nel corso dei miei studi ho avuto il tempo e il modo di conoscere davvero maestri per me fondamentali. Dal primo, il Maestro Ceccaroli, che mi ha dato delle basi solide, al Maestro Piero Toso, che mi ha portato sino al diploma in Conservatorio, al Maestro Alberto Lysy e al grande Yehudi Menhuin, con i quali mi sono diplomata all’Accademia di Gstaad, in Svizzera”.
Lei insegna musica anche al Conservatorio: qual è l’insegnamento più importante da trasmettere a un giovane musicista?
“Lo studio della musica non è solo un fatto meccanico, né si nutre soltanto di amore “romantico” per lo strumento. È un insieme di dedizione, passione, impegno ferreo. Per questo vorrei sempre poter appassionare un allievo, fare in modo che non perda mai la curiosità di imparare, la voglia, l’interesse. Di solito siamo tutti preparati per dare le basi. Appassionare è ben diverso, ma fondamentale. Non è semplice per un docente, ma anche questo si impara e si migliora con l’esperienza”.
La studio serio di uno strumento impone sacrifici e grande impegno. Ma al di fuori della sala da concerto, tale formazione si riflette anche nella vita di tutti i giorni?
“La musica, come la danza per esempio, pretende disciplina ferrea. Sono arti che richiedono fatica sia mentale che fisica. La disciplina diventa quindi stile di vita, così come il rispetto per gli altri. Sin da bambini si suona con altre persone e con nessuno puoi permetterti di essere saccente o prepotente. Si deve portare rispetto, sempre, anche se l’altro suona male o peggio di te. Da questo punto di vista la musica insegna l’educazione, i buoni modi, il saper ascoltare. Sono tutti aspetti che entrano (o dovrebbero entrare) a far parte del proprio modo di essere e di rapportarsi con gli altri”.
Ma fra le tante doti che deve possedere un musicista, qual è la fondamentale?
“Secondo me ne deve possedere due: la costanza e l’umiltà. Essere dotati musicalmente vuol dire poco o nulla. Può esserci chi ha grande facilità con lo strumento, ma se dietro non c’è studio costante, di certo lontano non si va. E poi l’umiltà ovvero saper fare un passo indietro, mettersi sempre nell’ordine di idee che si deve imparare e migliorare. Un altro grande insegnamento ricevuto riguarda proprio questo aspetto: quando suoni con gli altri, stai vicino al più bravo, non al più scarso, perché dal primo imparerai sempre qualcosa, dal secondo nulla”.
Durante la carriera, di studente prima e di concertista poi, ha mai avuto momenti di sconforto in cui avresti voluto abbandonare tutto?
“Sì, avevo undici anni, frequentavo il terzo anno di Conservatorio. Tutto mi sembrava ed era difficile, lo studio era duro e selettivo. Mi trovavo in aula, la finestra era aperta, avevo il violino in mano e mi sono detta: “ora lo lancio fuori”. Se in quello e in altri momenti difficili non ci fosse stato mio papà a sostenermi e incoraggiarmi, non so se sarei qui. Poi, un altro, dopo il diploma in Conservatorio: era terminato in un attimo un percorso di dieci anni, che prevedeva impegno giornaliero, studio, musica da camera, saggi, esami. Mi sentivo abbandonata e sperduta. Ricordo un episodio, proprio di quel periodo: mio papà e il Maestro Scimone si incontrarono per caso, quasi scontrandosi in bicicletta sotto i portici di Padova. Scimone colse l’occasione per chiedergli: “Ma cosa sta facendo Chiara?” e, dalla risposta, capì che doveva intervenire, tant’è che poco dopo fece in modo che andassi in Svizzera a studiare”.
Dopo tanti concerti tenuti in giro per il mondo, qual è il posto più strano o particolare in cui ha suonato?
“Mi vengono in mente due concerti, tenuti per la rassegna “I suoni delle Dolomiti”. Uno nel Bosco di Paneveggio, dove crescono abeti che si dice Stradivari utilizzasse per costruire i suoi violini. Era d’estate, e noi musicisti eravamo sistemati in un’arena naturale. Dai sentieri nel bosco le persone giungevano mano a mano, attirate dalla musica e si fermavano ad ascoltare. L’altro a Padola, nel Comelico, presso un rifugio, raggiunto con il violino in spalla”.
Due domande: c’è un compositore cui è più legata? Ascolta solo musica classica?
“Di getto rispondo Vivaldi, dopo ben trent’anni di “sodalizio”! Da violinista rispondo Beethoven, soprattutto le Sonate per violino e pianoforte, e la musica da camera. Ma non ascolto solo musica classica, anche perché le mie figlie mi obbligano ad ascoltare cose a volte inascoltabili! Sarà forse l’età… Confesso però di amare molto la musica della mia adolescenza, quella degli anni ’80: Claudio Baglioni, Fiorella Mannoia… E poi Alex Britti. Mi piacciono le canzoni con un’idea melodica, che ti rimane in testa. E poi Lucio Dalla con il quale ho suonato con abito lungo e scarponi con i Solisti Veneti con lui al pianoforte. Un’emozione indescrivibile”.
Davvero una bellissima e interessante intervista a 360 gradi, complimenti all’artista e alla giornalista!!