L’inverno dipinge di colori e suggestioni il paesaggio boschivo tutto intorno ai borghi di Stramare e di Milies, poco sopra Segusino, in provincia di Treviso, dove l’aria si fa più tersa e il respiro leggero, anche dopo la salita. Incontro Mirko Artuso, attore e regista di lungo corso, proprio in questi luoghi dove da mesi bosco, fiume, sassi e alberi fanno da sfondo a una stagione “a sipario chiuso”. Una stagione in cui, per tutti, spazio e tempo, termini chiave nell’agire teatrale e nella vita, assumono connotati nuovi che vanno ridefiniti ogni giorno. In pianura, a Villorba, è invece chiuso da molti mesi Il Teatro del Pane, cenacolo di vita e d’arte di cui Artuso è Direttore artistico e dove si propongono spettacoli, laboratori, rassegne ed eventi di valore, coinvolgendo gli spettatori nei riti dello scambio di cibo, cultura, emozioni, vita.
Nei mesi della pandemia tutto sembra così rarefatto e lontano. Eppure anche vicino, perché insito nella riflessione che ci domanda una risposta per il nostro divenire come singoli e come collettività.
Il teatro nei pensieri di Mirko Artuso
Mirko Artuso è intento a stendere ad asciugare la carta da lui stesso realizzata e sulla quale dipingerà le colline innevate o gli altri soggetti del suo repertorio di attore-pittore: tra questi, i pesci volanti, le colline intorno a Segusino o personaggi delle favole. Prendo a prestito e reinvento il titolo di un bellissimo libro di poesie di Franco Armino, La cura dello sguardo, per cominciare la nostra conversazione sul teatro, e non solo.
Possiamo dire che ci sia una forma di “cura nello sguardo”?
«Guardare è per me sinonimo di relazione con lo spazio che ho intorno e con il tempo che trascorro io stesso con quello spazio. La qualità dello spazio mi permette di dedicarmi al tempo in modo non passivo. Non ho mai immaginato di trascorrere del tempo come a un qualcosa di ineluttabile; è invece qualcosa che serve a trovare quotidianamente un senso alle cose. Il fare così come il perdersi nei pensieri oppure fare delle cose concrete che possono essere disegnare, pensare, immaginare, scrivere, leggere, studiare, guardare dei film… significa essere collegati con una riflessione sulla propria esistenza. Credo il nostro compito sia quello di migliorarci, possibilmente, giorno dopo giorno. Certo dobbiamo prima capire chi siamo. Il messaggio della vita è proprio questo: sperimentare, pensare, sbagliare, cambiare; poi, quando si è capito che si hanno dei limiti e delle risorse, cercare vivere nelle risorse il più possibile, smussando i limiti.»
In che modo il paesaggio, ciò che vedi dalla finestra di casa ma anche ciò che vedi con sguardo interiore, cambia la qualità dei tuoi pensieri?
«Il paesaggio, sì, ma anche un incontro con qualche animale selvatico, camminando nei boschi; e qui basta uscire di casa e gli animali si fanno trovare perché hanno anche loro la curiosità. Ogni giorno il paesaggio ti mostra, ti spiega qualcosa che non hai capito. Andare nella natura significa cercare qualcosa che le relazioni umane non sanno offrirci perché la natura umana è in qualche modo limitata; spesso, quasi sempre, è referenziale. La natura, invece, ti parla in maniera completamente diversa. Soprattutto non ti da nessuna risposta. Semmai ti pone le domande e le risposte le devi trovare tu.»
Se qui sei diventato, in un certo senso, un poco eremita, hai anche un’esperienza come “pellegrino di fiume”, se così si può dire. Per due anni hai portato in scena uno spettacolo, “Il camminante”, che racconta un percorso lungo due corsi d’acqua maestosi, Piave e Brenta. Hai attraversato la Natura percorrendola a piedi per un lungo tratto; ti sei sentito anche attraversare dalla Natura?
«Sì, certamente. Questa è un’espressione poetica però succede proprio questo, perché non può che essere che così. Se devi attraversare il fiume più volte in un giorno per raggiungere la tappa che ti sei prefissato devi stare intensamente con la Natura e accogliere ciò che ti offre per aiutarti nel cammino».
Qual è l’episodio della tua vita, il primo che ricordi, nel quale ti sei reso conto che ciò che stavi vedendo era un atto teatrale, uno spettacolo?
«Sono nato in provincia e la provincia è grondante di queste cose: casualità, gestualità, ritmo, cadenza. Tutti elementi che sono essenziali nel linguaggio teatrale. Ci sono questi lampi d’invenzione costanti. Nei bar, nelle botteghe di quella provincia di quando ero bambino o ragazzino, negli anni sessanta, settanta e primi anni ottanta, ho capito tutte queste cose. Non le sapevo ancora distinguere, non sapevo dare a queste cose un nome, gliel’ ho dato molto tempo dopo, però già allora mi accorgevo che quello era un mondo denso, pieno di relazioni tra le persone. In quegli anni, in un paese come il mio, Salgareda in provincia di Treviso, che aveva tre o quattro mila anime, c’erano una dozzina di “personaggi mitici”, persone che sono poi rimaste nella memoria di tutti, che avevano un modo di concepire se stessi e la vita davvero singolare.
Teatro e problematiche
Tutto questo dentro alle problematiche dell’alcoolismo o di altra natura, ma loro esprimevano il tessuto della piccola comunità e diventavano delle vere e proprie “nave scuola” dove tu imparavi le relazioni tra le persone, l’alto e il basso, imparavi la tensione e la ricerca di un equilibrio necessaria per mantenere l’armonia nel contesto della dimensione del paese; noi ragazzini passavamo dal piastrellista già ubriaco alle cinque del mattino a Luciano che ci spiegava Nietzsche al bar, non capivamo esattamente quello che ci diceva ma lo ascoltavamo perché capivamo che c’era qualcosa di profondo.
Quando poi sono approdato al Teatro Settimo di Gabriele Vacis a Torino ho portato dentro di me questa esperienza e il mio primo provino è stato esattamente questo: mettere in gioco me stesso. Portare te stesso, che arrivi da una piccola realtà in una città come Torino, dove ti immagini che ci sia la città con tutte le sue innovazioni e conoscenze, ha fatto sì che ci fosse una strana curiosità anche da parte del regista che guidava quel gruppo».
La scelta del tuo percorso come attore, regista, operatore culturale è sempre stata orientata a una proposta d’incontro con le persone tale da generare una interazione, una relazione teatrale che fosse anche sociale. Emblematico, da questo punto di vista, l’incontro del Teatro con la disabilità che ti ha visto artefice di produzioni teatrali importanti.
«Da Shakespeare a Pasolini ho sempre praticato esperienze di tipo inclusivo. Per dodici anni ho realizzato gruppi di lavoro e spettacoli, insieme a persone diversamente abili, in varie città d’Italia e non solo. Molte occasioni di lavoro amatoriali e anche professionali. Insieme abbiamo alzato l’asticella, abbiamo realizzato un nostro modo di fare teatro, che non fosse l’imitazione del teatro convenzionale perché il nostro stare insieme non era fatto di convenzioni ma scoperte quotidiane reciproche, dove io imparavo ogni giorno come si faceva teatro con persone disabili e loro cosa fosse il teatro. È stata un’esperienza importante e coinvolgente.
Ho realizzato progetti che sono stati anche molto sostenuti dalle Aziende sanitarie a Torino, Treviso, Ferrara, Pordenone, Trieste, Mira e altre città. A Tokio nel 2000: quella è stata un’esperienza molto interessante, intensa, che ha mostrato una capacità di stare in relazione col tempo e nello spazio che noi occidentali non ci possiamo neanche immaginare. È stata una lezione di vita per me molto intensa».
Il teatro è quello sul palco o si trova anche altrove?
«Il palco è uno dei tanti luoghi in cui si può manifestare: il teatro c’è, in ogni momento della nostra vita, se lo si vuole vedere. Quando le persone pensano al teatro come a qualcosa di finto questo un po’ mi rattrista. Perché vuol dire che quelle persone non hanno capito che la vita è fatta anche di situazioni che io posso generare e che possono chiedermi di essere coinvolto emotivamente in una forma che non è prevedibile; mentre la maggior delle persone costruisce la propria esistenza convinta che si possa controllare tutto e questa convinzione spesso genera dei problemi di natura sociale vera e propria dove invece non si riesce affatto a controllare tutto ed emerge paura, disagio, difficoltà.
La ritualità
La ritualità del teatro è fatta di due entità: chi lo produce e chi lo guarda. In entrambi i casi non si è mai passivi. A teatro non si va per essere intrattenuti ma per essere coinvolti in una realtà che è fatta di contenuti e di tanti aspetti emozionali. A teatro portiamo la nostra emotività e per questo la realtà che si rappresenta o si osserva assume una dimensione diversa ogni volta. Il teatro fa i conti con qualcosa di effimero che c’è solo nel momento in cui si rappresenta. In teatro vediamo qualcosa di vero. Il teatro “è più vero del vero” come direbbe Luigi Meneghello perché le distanze si annullano. Tempo e spazio si condensano in un momento fortemente caratterizzato da tanti aspetti; forse, molte volte, lo spettatore non è in grado di riconoscere tutto ma non è neanche necessario che le riconosca.
L’arte va rivista più volte e non va giudicata. Non serve a niente giudicare perché ti impedisce di viverla. L’arte va vissuta per quello che è in quel momento. Tutto il resto è sovrastruttura, che ti allontana e che non ti mette in sintonia con l’opera. Poi bisogna avere il coraggio di riconoscere ciò che ti suscita l’incontro con l’arte: a volte non ti suggerisce nulla altre volte ti dà delle emozioni straordinarie. Va da sé che tutti dovremmo avere un incontro quotidiano con l’arte, arte è tante cose, è un lavoro fatto bene da un artigiano ad esempio.»
Attore di teatro e di cinema. Come ti poni rispetto a questa esperienza di lavoro?
«La prima cosa a cui pensiamo quando siamo di fronte alla macchina da presa è che siamo parte di una narrazione e ogni cosa che facciamo serve a portare a compimento qualcosa di più grande. Deve essere questo l’approccio. Il risultato si ottiene se le parti coinvolte, gli attori e il regista, rinunciano a qualcosa di se stessi per arrivare ad ottenere un certo contenuto, un certo messaggio. Ci sono registi con i quali tu puoi parlare delle ore, altri con i quali puoi fare un film intero e non ti dicono una parola, io preferisco questi.
L’atto creativo non prevede che ci si metta d’accordo prima se si vuole raggiungere qualcosa di vero. La verità non vuole compromessi, non ci si può mettere d’accordo su nulla; diversamente è finzione. Per trasmettere verità, deve essere chiaro il contesto in cui sei e l’emozione che devi trasferire; in qualche modo devi aver vissuto il più possibile situazioni simili a quelle che ti vengono proposte.»
“La giusta distanza” oltre ad essere il titolo di un bellissimo film di Mazzacurati che ti vede partecipe, è stato anche il titolo di un percorso teatrale da te proposto l’estate scorsa. Come vivi questo tempo di chiusura forzata del teatro e di isolamento?
«Siamo dentro una grande contraddizione. Ci sono segnali molto diversi tra loro e reazioni molto diverse. Ci siamo tutti immediatamente piegati ad assecondare, a seguire le linee guida: molte imposte mentre per altre c’è stato un minimo di discussione sociale. I comportamenti li vediamo e sono schizofrenici. Stiamo vedendo giorno per giorno la narrazione che fanno: c’è qualcuno che sta utilizzando questa narrazione a scopi economici, qualcuno a scopi finanziari, qualcuno a scopi politici. Siamo passati da un’espressione collettiva del cantare sui balconi con grande speranza, commozione, grande emotività al suo esatto contrario. Se qualcuno mi spiega perché un teatro rimane chiuso e di fianco c’è un centro commerciale aperto; perché posso stare in un bar fino alle sei di sera e in un teatro no. Queste sono contraddizioni. Sono state fatte delle scelte a monte che stiamo subendo.»
Cosa ne pensi della possibilità di portare il teatro nei palinsesti televisivi o in streaming?
«Io sono contrario. Il nostro mondo non è preparto per quegli eventi, per quei strumenti; ma non perché non siamo capaci, solo che il linguaggio è un altro, è diverso, è un altro modo di essere fisicamente. Non basta una ripresa con una telecamera. Vuol dire non aver capito il valore di quella relazione che si instaura tra l’attore e lo spettatore che equivale a un rito che unisce le due parti in presenza l’uno dell’altro. A chi servono quelle operazioni? A quei pochi eletti che continueranno a fare ciò che hanno sempre fatto perché andavano in televisione anche prima. Nel teatro c’è tutto un mondo che è fatto di persone che incontrano bambini, adulti, famiglie, anziani, persone disabili che con il teatro e grazie al teatro cambiano per un poco la condizione della loro esistenza, la migliorano.
Questo è un dato di fatto, è il nostro ritorno. Non è presunzione, è ciò che ci arriva. Io sono semmai favorevole che si parli del teatro in televisione, che sia qualcosa che valga la pena divulgare. Il teatro deve tornare al centro della collettività. Lo è stato per secoli. È stato declinato in tante forme, tanto da diventare quasi irriconoscibile. Va riproposto semmai un discorso sul teatro, che lo faccia conoscere nuovamente, che faccia venire il desiderio di andarci.»
Chi è Mirko e cosa è per lui “teatro”
Attore e regista, Mirko Artuso inizia la sua attività di attore – narratore nel 1987 presso la compagnia Laboratorio Teatro Settimo di Torino negli spettacoli: “Nel tempo tra le guerre”, “Libera Nos”, “La storia di Romeo e Giulietta” (premio UBU 1991), “Trilogia della Villeggiatura” (biglietto d’oro 1994) diretti da G.Vacis. Si è formato lavorando in stretta collaborazione con attori come: Laura Curino, Marco Paolini, Eugenio Allegri. La sua ricerca artistica si basa sul continuo confronto tra il linguaggio poetico del teatro e l’interpretazione della realtà e dei luoghi, in cui si manifesta. Le sue creazioni muovono dalla necessità di raccontare. Ideatore e regista di progetti teatrali e performance multimediali. Tra i suoi film, come interprete, ricordiamo: Effetto Domino (2019), Resina (2018), La pelle dell’orso (2016), La sedia della felicità (2013), Piccola Patria (2013), La giusta distanza (2007), I piccoli maestri (1998). Mirko Artuso è direttore artistico dell’Associazione Il Teatro del Pane.
Due persone che ammiro, Anna per la sua naturale eleganza nei gesti, nelle parole, per le sue poesie piene di grazia e sentimenti e Mirko, attore poliedrico, ma per me soprattutto fantastico Mangiafuoco di quel carrozzone che si chiama Teatro del pane.