La lingua è il mio modo di esistere / La abito camminando: in due versi, un mondo. Lei è Lucia Guidorizzi; padovana di nascita, veneziana per destino, la chiamano la poeta viandante ma, nel panorama culturale veneto, Lucia è molto di più. Poeta sì, oltre che per molti anni formatrice (ha insegnato l’amore per la letteratura a ragazzi ed adulti); ha condotto laboratori di lettura e scrittura, ha recensito opere di autori contemporanei per importanti riviste e blog. Dieci libri di poesie all’attivo, spesso collegati allo spirito e alla pratica del viaggio, ai misteri delle culture più lontane, alla fascinazione del cammino. Neppure quest’ultima fatica, Quanto dista Finisterre? appena uscita per i tipi di Supernova, in copertina un’opera di Giovanni Anzalone, smentisce le aspettative: un viaggio ai confini del “mondo conosciuto”, Galizia spagnola, ultima propaggine del Cammino di Santiago di Compostela, là dove il sole si tuffa nell’oceano.
Cos’è Finisterre
Lo spunto galiziano, tuttavia, finisce per dilatarsi in un’opera che abbraccia un orizzonte più ampio: «Finisterre è molto di più di un luogo geografico, – scrive nella bella prefazione Silvia Favaretto – è uno spazio mentale e simbolico».
L’autrice
L’autrice ne fa, per sua stessa ammissione, stazione di confine, una soglia, in cui s’intrecciano profonde riflessioni sullo stato del proprio esistere: a che punto siamo del nostro viaggio? A che punto è la nostra opera?
La trama di Finisterre
In una tessitura complessa, dai sottili rimandi testuali – la mitologia, la concezione dell’andare come l’espletamento di un rito, il sottile margine del duende, la forza misteriosa che emana lo spirito della Terra e di cui parla Garcìa Lorca – Lucia fa entrare la scansione dei giorni, gli eventi ineludibili: l’Aqua Granda e il suo orrore, Quando questa notte finirà / Saremo ancora qui scrive fiammeggiante; il confinamento della primavera scorsa, con quel tempo che avverte Sospeso tra prossimità e distanza.
Lo scorrimento della narrazione
Nel camminare testardo, amoroso dei versi, l’autrice ricorda Bouchra e Sanae, le due ragazze marocchine che – per aver perso il lavoro – si sono uccise l’8 aprile di quest’anno, buttandosi di notte nelle acque fredde della laguna. Oppure torna con la memoria alla solitudine immedicata di Mario Stefani; rilegge le ombre di Tintoretto o El Greco, proiettandole nel folto dei boschi. «… il fuori è in realtà tutto dentro all’ansia dell’andare, parallela a quella del sentire in profondità» commenta nella postfazione Enzo Santese.
Finisterre come percorso
Attraverso il percorso, fisico e mentale, la lingua abitata di Lucia non designa le cose; le cose appaiono, anche quando la parola poetica sfugge allo sviluppo lineare del pensiero. Ogni volo è figlio di caduta, recita, in una delle intuizioni più luminose dell’intera raccolta: è tempo di riflettere sulla necessità dei sentimenti e sul pericolo, sul bilico che il vivere porta con sé. È tempo di lasciar andare, ridurre all’essenza.
Il cammino
Torna alla mente, per questo volume dal sapore di profezia, la frase tratta da alcuni versi di Machado che Luigi Nono lesse sul muro di un chiostro di Toledo e fece sua: Caminantes, no hay caminos, hay que caminar (“Viandanti, non c’è cammino, c’è da camminare”). Come per Lucia, verso la sua Finisterre: la meta è sempre un passo oltre. Intanto si va, si racconta e si cambia.
Grazie a Francesca Brandes che ha scritto una splendida recensione per “Quanto dista Finisterre?” riuscendo a coglierne anche gli aspetti più nascosti.