I pareri sono da sempre discordi. Miguel de Cervantes sosteneva che «il tradurre da una lingua in un’altra è come guardare gli arazzi fiamminghi da rovescio». Mentre – in epoca più vicina a noi – Italo Calvino, al contrario, scrive che «tradurre è il vero modo di leggere un testo». Quando quel testo è un testo poetico, la faccenda si complica. Ancor più se, a tradurre versi, sono poeti.
Poeti e traduzioni
La letteratura del Novecento annovera celeberrimi traduttori poeti. Montale, ad esempio, che iniziò a tradurre per sbarcare il lunario, regalandoci meravigliose versioni di Shakespeare, Eliot, Emily Dickinson. Oppure Pavese, Vittorini, Ungaretti, in un sottile gioco di compromessi e infedeltà.
Il libro dei poeti tradotti
«La presenza del poeta traduttore (…) esplicita un senso di responsabilità multipla». Lo afferma Alessandro Scarsella, docente di Letterature comparate all’Università Ca’ Foscari di Venezia, nella nota di copertina di un volume inconsueto, per formula e stile, uscito quest’anno per i tipi di Arcipelago itaca e ancora non presentato in pubblico per le alterne vicende della situazione sanitaria. S’intitola I poeti e il tradurre, a cura di Diogo Figueira Colossi e con la prefazione di Martina Daraio.
Voci e interventi
Non un’antologia, ma una fitta trama d’interventi – intelligenti e comprensibili – di poeti che raccontano il loro rapporto con la traduzione di liriche. Sono voci più o meno conosciute dal grande pubblico, ma tutte (con qualche rara eccezione) appartenenti all’area culturale del nordest italiano. Da Antonella Barina (unica donna fra gli autori selezionati) a Rino Cortiana, da Paolo Ruffilli a Gian Mario Villalta, per citarne solo alcuni.
I poeti parlano tra loro
L’opera spalanca un mondo, tra diversità d’approccio e continui rimandi ad altri autori. La stessa Barina, giornalista oltre che poeta, una particolare sensibilità per Cuba e l’America Latina, ribadisce che è necessario «tenere le cose dentro, farle ribollire, trasmutarle, esserne cavia prima di farle uscire».
Mentre Luciano Cecchinel si accosta all’argomento con una narrazione più piana, ammettendo tutte le proprie riserve iniziali. «Quando era ormai ultimata la mia prima raccolta di poesie dialettali, – racconta – mi persuasi di doverla auto-tradurre in italiano e fui preso allora dal panico».
Poeti e traduzione altruista
C’è chi, come Rino Cortiana, cita serenamente Bonnefoy e la sua esclamazione: «Sia benedetta questa traduzione altruista, senza la quale, per quel che mi concerne, non saprei nulla di Dostoievski e quasi nulla di Kafka o di Cervantes!». Gli fa eco Pasquale Di Palmo, ricordando il «Je est un autre» di Rimbaud e la necessità di una «traduzione concepita alla stregua di un’opera creativa tout court».
Il giornalista e il musicista
E se Valter Esposito, giornalista, autore di quattro raccolte di versi, consiglia al giovane traduttore di «conoscere prima di tutto il poeta», Ulisse Fiolo – musicista, oltre che autore – osserva che, in ogni caso, «ogni percezione è già filtrata, ogni lettura è già interpretazione: quindi traduzione».
Poeti e dibattito
I poeti e il tradurre suona così anche come un’inchiesta – puntuale, aggiornata, corredata da note biografiche – sullo stato del produrre, e pubblicare poesia in Italia, oggi: la propria, quella degli altri, più o meno prossimi nello spazio e nel tempo. Con buona pace di un altro mostro sacro, lo statunitense Robert Frost, convinto che la poesia sia ciò che si perde, e non ciò che si guadagna nella traduzione. Il dibattito resta aperto.
Complimenti, una splendida recensione e…grazie…!
Bel commento e grazie per citazione di Frost…