Sono passati pochi giorni dalla laurea “honoris causa” conferita a Lorena Quaranta, studentessa di medicina all’Università di Messina uccisa dal fidanzato lo scorso 31 marzo. In pieno lockdown. Riecheggiano le parole che sembrano lontane del monologo di Rula Jebreal sul palco del Teatro Ariston durante l’ultima edizione di Sanremo, che ha riportato con forza l’attenzione su questo tema. Sembra passato un secolo dall’ultimo flash mob “Spezza le catene” di fronte alla Basilica Palladiana di Vicenza quando ancora ci si poteva toccare. Di violenza sulle donne si continua a parlare, ma sembra esserci la necessità di riaccendere i riflettori su un fenomeno che spesso nella realtà rimane nascosto tra le mura domestiche e dentro il cuore di chi la subisce.
L’intervista
Maria Zatti, Presidente associazione “Donna Chiama Donna” e le operatrici del Centro Antiviolenza Vicenza e Sportello Antiviolenza di Arzignano non si sono mai fermate. Si sono adattate a alla lontananza (solo fisica), a gestire le telefonate e sono rimaste attente a monitorare ogni situazione. Qualcosa è cambiato in questi mesi?
Il fenomeno della violenza sulle donne ha subito un incremento durante questa pandemia a Vicenza (e non solo)?
“La convivenza forzata con mariti o compagni maltrattanti ha aggravato sicuramente le situazioni di violenza domestica già compromesse e ha anche ridotto la possibilità per molte donne, costrette a rimanere in casa con uomini violenti e ipercontrollanti, di chiedere aiuto ai centri antiviolenza e alle forze dell’ordine. Nel primo periodo di isolamento sono diminuite le telefonate, ma l’intensificazione della campagna di sensibilizzazione ha aiutato molte donne a trovare maggiore consapevolezza, forza e opportunità per richiedere sostegno, ricominciando a ricontattare almeno telefonicamente i centri per cercare soluzioni per uscire da situazioni di violenza vissute da tempo. Un deciso aumento di richieste di aiuto è avvenuto dopo il periodo di lockdown, quando le donne si sono sentite più libere di uscire. Per i casi più gravi, nonostante le difficoltà dovute al Covid19, si è garantito l’inserimento in strutture protette”.
Come centro anti violenza, avete avuto particolari difficoltà?
“Le difficoltà sono state molte durante il Covid19, prima di tutto il fatto di non poter incontrare le donne. I colloqui telefonici garantivano un discreto monitoraggio delle situazioni già prese in carico, ma rendevano più difficile il primo contatto di accoglienza. Ulteriore difficoltà era riuscire a garantire la costanza telefonica vista la presenza in casa del maltrattante. Anche l’inserimento nelle strutture protette inizialmente è stato molto complicato in quanto le case rifugio per salvaguardare le ospiti già presenti richiedevano il tampone che nelle prime settimane di emergenza era quasi impossibile ottenere in tempi rapidi.
Negli ultimi mesi abbiamo riscontrato un aumento di richieste di aiuto da parte di donne straniere, in particolare allo Sportello Antiviolenza di Arzignano, dato positivo considerata la difficoltà culturale di denunciare mariti violenti. C’è stato inoltre un aumento di richieste di aiuto da parte di donne giovani che fortunatamente chiedono aiuto ai primi segnali di maltrattamento, dato che può essere letto positivamente ma che, al contempo lascia supporre un abbassamento dell’età degli uomini che agiscono violenza all’interno di una relazione. Importante mettere in luce la violenza assistita, di cui ancora poco si parla sottovalutandone le conseguenze. Va infatti ricordato che quando un bambino assiste alla violenza sulla propria madre ha lo stesso impatto emotivo che subirla direttamente con il rischio che il bambino provi stati di angoscia che si possono poi sviluppare in comportamenti aggressivi o depressivi”.
Violenza domestica e violenza sulle donne: fenomeni distinti o molto legati?
“Sono due facce della stessa medaglia. Non è possibile definire se una dipende dall’altra. E’ possibile infatti pensare che da una società ancora impregnata di stereotipi non possa che emergere una conseguente violenza intrafamiliare. Ma allo stesso modo è possibile pensare che dall’abitudine al ruolo di cura chiuso tra le mura domestiche. Che ha per troppi anni scritto la storia della violenza intrafamiliare nasca una convinzione sociale sul ruolo della donna. Che fatica ad essere estirpato e che ha reso la donna più fragile e oggetto di violenza in senso più ampio”.
Cosa è cambiato per noi nel periodo di lockdown?
“Naturalmente ci siamo dovute adeguare ad una modalità “a distanza” priva di quella possibilità di esserci, con lo sguardo, con una mano, con una presenza fisica che crea un ambiente sicuramente più intimo, empatico e accogliente. Abbiamo comunque intensificato le telefonate, le videochiamate e i messaggi con tutte le donne in carico che necessitavano di un costante monitoraggio. Le operatrici erano sempre in ufficio, alternandosi, per non far mancare mai la possibilità di contattarci. E devo dire che se in principio c’è stata una chiara diminuzione dei contatti, molto velocemente sono addirittura aumentati. Perché più che mai la solitudine si è fatta sentire per tutti. Le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza spesso sono donne distrutte psicologicamente e fisicamente da anni di violenze. Molte spesso sono spinte a chiedere aiuto quanto temono per l’incolumità dei figli o quando sono i figli stessi a dire alle madri di denunciare il padre. Spesso è il senso di vergogna, di colpa, la mancanza di indipendenza economica, la paura di perdere i figli, che impedisce loro di chiedere aiuto. Ma oggi la maggiore informazione le aiuta ad avere più consapevolezza sulla loro situazione di violenza e a non sentirsi più sole”.
In caso di violenza, una donna come si deve comportare?
“Se una donna vive situazioni di maltrattamento e di qualsiasi altra forma di violenza, psicologica, fisica, stalking, sessuale, può chiedere aiuto rivolgendosi ad un centro antiviolenza. Dove viene ascoltata senza essere giudicata e aiutata in un percorso di consapevolezza o di sostegno per uscire da situazioni di violenza. In caso di emergenza è necessario chiamare il 112 o il 118. Molte donne hanno ancora molta paura a denunciare, anche se le denunce sono aumentate, perché temono l’aggravarsi della loro situazione e perché i tempi della giustizia non sempre sono così veloci. E i provvedimenti tardano ad arrivare costringendo le donne a subire continui atti di violenza o di stalking da parte di ex compagni o mariti. Che spesso utilizzano i figli come intermediari di minacce. Il codice rosso, la legge per i reati di violenza, purtroppo non ha portato grandi risultati. Anzi ha aumentato il lavoro dei magistrati rallentando così ulteriormente l’avvio dei procedimenti”.